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MA MORENO ANTICIPO' PIRANDELLO?

Un comunicato d'agenzia ha trasmesso qualche giorno fa la notizia della morte di Jacob Levi Moreno nello Stato di Nuova York. Scompare con lui, all'età di oltre ottanta anni (era nato a Bucarest, nel 1882) uno dei personaggi più pit­toreschi ed inquieti del teatro mondiale di tutti i tempi e una di quelle figure faustiane di indagatori dello spirito umano che sembrano ormai sparite da que­sta terra. L'ultima volta che lo vidi fu due anni fa. in un quartiere della periferia di New York, dove aveva istallato il suo teatro. Seduto accanto alla cassa, in redingote, il volto affilato ma sempre mobilissimo, stava preparando, assieme alla giovane moglie Zerka, i volantini pubblicitari da distribuire agli spettatori. Singolare pubblico, in verità. Quella sera erano una cinquantina di infermiere del vicino ospedale di quartiere. C'era anche qualche ragazzo, una coppia di pensiona­ti e una mezza dozzina di personaggi indefini­bili. familiari della bottiglia del whisky, amabil­mente rilevata dal fondo d'una tasca di giacca. J. L. Moreno li osservava tranquillo. A qualcuno un sorriso, a qualche altro una stretta di mano, segno di vecchia familiarità. La sala era un grande spazio rettangolare dalle mura dipinte di verde. Al centro, una pedana larga quanto un nor­male ring di boxe e, tutto intorno, un centinaio di sedie di ferro. Un paio di proiettori, a destra e a manca della ribalta, manovrati da uno dei figli piccolini. Questo era tutto.

Continuava così attraverso il tempo e lo spa­zio, una prestigiosa avventura teatrale iniziata mezzo secolo prima, in una sala molto simile a questa. lo Stegreiftheater. nella Vienna dei pri­mo dopoguerra. Chi era a quel tempo Moreno? Era un giovane psichiatra, amico e collega di Sigmund Freud. laureatosi nel 1917, appassio­nato di teatro, fondatore della rivista Daimon. La parola psicodramma non era ancora stata coniata, ma esistevano già tutte le premesse filo­sofiche e tecniche per il suo impiego. Moreno, difatti, andava svolgendo in quegli anni una duplice attività di polemista e di teatrante. Gli in­fiammati editoriali dei Daimon propagavano il suo nuovo credo drammaturgico: lo credo di attivare tutti i valori religiosi, etici, culturali per mezzo di una forma drammatica spontanea!
Ecco. racchiuso nella magia di quest'ultimo ag­gettivo, tutto il segreto della sua rivoluzione teatrale.

Ripensavo a quella frase degli anni lontani, mentre il vecchio Moreno s'accingeva a salire sulla pedana del suo teatro americano iniziando con la formula di rito: Chi vuole venire a recitare stasera?  Nella piccola folla delle infer­miere sedute due mani si levarono, poi una ter­za. Era una magrissima negra, dallo sguardo triste. Salirono tutti e tre alla ribalta. «Che vuoi dirci?» E la negretta. a voce chioccia: la faccenda di domenica notte». «Yes! Yes!». fecero, in basso, le altre infermiere. Il vecchio, seduto in un angolo dei ring, stava ad ascoltarle con una espressione benevola. Le fece cenno di accomodarsi su uno sgabello e fece ancora un cenno al ragazzo che teneva il proiettore. Si accese la prima luce.
La ragazza, nella sua unifor­me di bucato, pareva ancor più grama ed esi­tante nel gran silenzio che s'era fatto intorno. Cominciava così a nascere, sotto gli occhi di tutti, il suo psicodramma. Era una storia semplicissima, breve ed amara, di quelle che piacciono a Cesare Zavattini: una domenica se­ra, incaricata di vegliare un vecchio malato del­l'Ospedale, la ragazza stremata dall'afa s'era assentata per respirare un po’ d’aria fresca sul terrazzo, assieme a qualche collega. Al ritorno aveva trovato l'uomo in agonia e dopo un paio d’ore l’aveva visto morire. Era il suo primo tur­no festivo all'ospedale e quella fine inattesa del suo paziente l'aveva stranamente sconvolta. Non aveva più voglia di cibo. La notte gli incubi la tormentavano. In breve, aveva bisogno di sfogarsi con qualcuno, che capisse il suo incupimento. Qui, la tecnica dello psicodramma si snodò nel modo previsto.

Nel giro di qualche minuti Mo­reno cominciò a rispondere come se si trat­tasse d’un vecchio malato. Poi, di colpo, cam­biando voce e portamento, prese il ruolo del me­dico di guardia. All'improvviso, nel bel mezzo del dialogo pretese che l'infermiera recitasse il personaggio della moglie del morente, e così via di seguito. Durante un paio d'ore vedemmo die­ci, venti personaggi fittizi incarnati per lunghe o brevi battute e daccapo sparire nel buio. Mo­reno, demiurgo trascendente, era lui a decidere: Ora non sei più la moglie! Sei la figlia...
Altre due compagne di lavoro della negra erano salite sulla ribalta per figurare l'ambulanza. Rivedevo quell’episodio d’una notte d’estate con la credibilità e l'impegno d’una vera e propria tragedia, in assenza totale scene, in una sorta di deserto nudo e allu­cinante.

Intorno agli anni '20 J. L. Moreno aveva avuto la intuizione delle straordinarie risorse racchiuse nella improvvisazione teatrale. Nel teatro tradizionale tutto è pronto prima dello spettacolo: trama, testo, dialogo. Nessuno degli attori coincide con alcun personaggio della vi­cenda. Nessuno recita il proprio dramma, ma quello immaginato da un altro. Gli sforzi di improvvisazione, a partire da un canovaccio, al modo della Commedia dell'Arte, la stessa tec­nica di concentrazione dell’attore cara a Stanislavskij sono soltanto lodevoli ma inutili sforzi per rimediare a una situazione irrimediabilmen­te falsa. Quello che tentava Moreno era il ritorno dal dramma rappresentato al dramma vis­suto. Ma qui si manifesta una scissione im­portante. Perché non bisogna dimenticare che Moreno era ad un tempo psichiatra ed uomo di teatro. Questa dicotomia è fondamentale per comprendere l'evoluzione del psicodramma. Lo sdoppiamento della personalità che è alla base del processo intravisto da Moreno comporta appunto una duplice possibilità di soluzione: o come fatto espressivo (da limitare al territorio teatrale) oppure come terapia. In uno dei suoi libri di memorie egli ci racconta la sua prima osservazione a proposito.

La migliore attrice dello Stegreiftheater era Barbara, che eccelleva nella interpretazione di ruoli di ingenua romantica. Giorgio, poeta ed attore drammatico era il suo spettatore più as­siduo. Fra di essi nacque un idillio concluso con un matrimonio. Continuano a frequentare il teatro di Moreno quando un giorno Giorgio de­cide di confidare all'amico psichiatra il proprio imbarazzo: «Questa creatura dolce e angelica, che tutti ammirano si comporta come un demonio selvaggio quando è sola con me...»
Mo­reno ebbe allora l’idea di far recitare a Barbara, la stessa sera della rivelazione, un ruolo cinico e volgare. Barbara accetta, col timore di non riu­scire. Interpreta una parte di prostituta dei bassi quartieri di Vienna: inveisce, insulta, ritrova, inaspettatamente i termini più volgari ed abbiet­ti con una intensità mai prima raggiunta. Mo­reno intuisce d’aver trovato un filone pieno di imprevisti. Continua ad assegnare a Barbara parti da sguattera di bordello, di amante isterica, di mo­glie vendicativa. Dopo qualche giorno, Giorgio lo informa che il comportamento privato della sua compagna sembra modificarsi: in casa, gli ac­cessi di collera perdono la loro intensità, le ac­cade di scoppiare a ridere nel bel mezzo d'una di quelle dispute che, prima, avvelenavano i loro rapporti.
Moreno ha una nuova idea: pro­pone alla coppia di recitare in pubblico, propo­nendo loro delle sequenze ispirate al racconto dei precedenti trascorsi; li fa recitare scene evo­canti la loro infanzia, i sogni, i progetti d’avvenire Queste improvvisazioni ottengono nel pubblico uno straordinario successo e, nei suoi due protagonisti, un sollievo che si prolunga molto al di là dello stretto quadro scenico: la teoria dello psicodramma è nata da questa prima esperienza.
Moreno riesamina con meticolosa at­tenzione la nozione aristotelica di 
catarsi: la tra­gedia purifica l'anima dello spettatore, poiché suscitando insieme terrore e pietà, lo libera da queste emozioni. Ma Aristotele si riferiva a una tragedia finita e limitata. Nel teatro sponta­neo invece la catarsi è anzitutto quella dell'attore che esteriorizza il suo proprio dramma e che si libera dei fantasmi interni realizzandoli sulla scena. La ca­tarsi è ugualmente quella del pubblico, ma per ef­fetto secondario: vedendo rappresentare sulla scena i propri conflitti lo spettatore vi trova uno sfogo, e spesso una soluzione.

Avevo rivisto Moreno, a Parigi, una decina d'anni fa. in occasione d'una riunione internazionale di sociologia. Era venuto stavolta sotto altra veste. Quella dello scienziato rigoroso ed asciutto. Era un'altra delle sue metamorfosi. Il soggiorno americano l’aveva spinto, in un primo tempo a inserirsi in un settore molto diverso da quello alquanto rapsodico e colorito del pe­riodo viennese: quello delle relazioni interper­sonali nelle minoranze etniche degli Stati Uniti.
Da queste inchieste, condotte con meticoloso fer­vore, era nata una metodologia ancora una volta originale: la sociometria. 
Nel 1934 il libro Who shall survive? A newapproach of the problem of human interrelations presenta questa nuova scien­za. A partire dal 1937 si pubblica regolarmente una importante rivista Sociometry. A Journal of interpersonal relations. E un Istituto di socio­metria riunisce un gruppo di sociologi, economi­sti, demografi fra i più qualificati d'America fin da quel tempo di riconversione.
Era questo. Era anche questo, Moreno. dalla sua Romania d'origine, dalle contraddizioni della sua vita erratica, aveva tratto stimolo palle sue possibilità proteiformi. Tozzo, stempiato, dal naso adunco, le mani perpetuamente a mulino. Aveva una voce e uno sguardo indimenticabili. L'occhio leggermente strabico covava una fiamma complice e trascinante che ti andava dritto al cuore se eri riuscito a diventargli amico. La voce, invece, che esplodeva tonante alla ribalta, aveva, in privato, tutto un repertorio di pianissimi, un velluto di altri tempi, insieme rabbinico e viennese. Ho trascorso con lui e la famiglia giornate di discussione e di studio in Francia e a New York. Discutevamo, fra l'altro della spinosa questione delle parentele fra le sue teorie e quelle di Pirandello.
Non era geloso del successo mondiale e della fama dell'autore dei Sei personaggi e di Questa sera si recita a soggetto. Mi diceva soltanto: Pirandello è stato uno straordinario uomo di teatro e io un medico straordinario. Però un giorno o l'altro, col calendario alla mano bisognerà pure stabilire chi è stato il primo a inventare questa modalità dello spettacolo improvvisato.
Ma non sognava ripicche, rivendicazioni, risarcimenti critici. La sua vocazione era diversa, era un’insaziabile e disinteressata curiosità del mondo: da alchimista e un poco da mago. Per questo ha scelto di dirigere un teatrino di cinquanta posti, dove la gente veniva a confessarsi su una ribalta nella periferia di New York pagando un dollaro e mezzo di biglietto mentre la sua invenzione (definita la terza rivoluzione psichiatrica dopo quelle di Pinel e Freud) si diffondeva tra psichiatri e psicologi di tutto il mondo.

Tratto da IL DRAMMA 1974 - redazione di O. R.
Foto  di Luigi Ciminaghi: 
La Grande Magia di Eduardo de Filippo nella regia di Giorgio Strehler (Piccolo Teatro di Milano - 1984 - 1985)

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