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PREFAZIONE A "DA STORIA NASCE STORIA "

Dal libro di Ottavio Rosati edito da Nuova Eri Rai 1994


Io non so niente di televisione, so pochissimo di psicoanalisi, ma proprio poco poco, e appena un minimo di più di psicodramma perché sarebbe stato impossibile conoscere da vent'anni Ottavio Rosati senza lasciarsi contagiare dal suo appassionato coinvolgimento in un'attività che per lui è molto più di una professione.

Ricordo che un'estate di tanti anni fa, appena tornata dagli Stati Uniti, mi fece salire in automobile e mi trascinò a Parigi dal macrobiotico giapponese Michio Kushi e subito dopo a Saint-Tropez dai suoi primi maestri di psicodramma, i lacaniani Paul e Gennie Lemoine, come se mi stesse portando a Lourdes. Di questa seduta non ricordo nulla perché non appena entrai nel gruppo dei Lemoine mi addormentai. Per la fame e per il jet lag, secondo me, per resistenza alla psicoanalisi, secondo lui.

Però mi è capitato di farmi coinvolgere da Rosati in qualcuno dei suoi gruppi aperti al pubblico, uno al Dams di Bologna dove intervenni nel ruolo di un cane creando un generale imbarazzo, uno al Piccolo Teatro di Milano dove una dolce ragazza mi fece fare la parte di un gatto. A Torino, durante le riprese di Giocare il sogno - Filmare il gioco, dove non intervenni in nessun modo, né come essere umano né come animale, assistei con crescente emozione ad alcune scene con Milena Vukotic e Alessandro Haber: abbastanza da poter testimoniare che nessun dialogo fu mai preordinato o provato e dunque tutto il laboratorio, che preparò la strada al programma della Rai Da storia nasce storia, si basò su totale improvvisazione.

Ricordo che quando negli anni Settanta, per ubbidire ad Allen Ginsberg, andai ad Ascona a incontrare Timoty Leary allora ricercato dall’Fbi, suscitai molte perplessità tra gli amici, terrorizzati che mi lasciassi attirare nel suo regno dell'Lsd. A giudicare dalla quantità di telegrammi che mi mandò, il più preoccupato di tutti era Rosati, questo ragazzo avviato a diventare psicoanalista che avevo appena incontrato a Roma e che aveva deciso di dovermi difendere dalle mie cattive amicizie letterarie. Protervo e ribaldo, sfacciato e aggressivo, cinico e irruente, si capiva dopo cinque minuti che questa messa in scena proteggeva una generosità patologica e una gentilezza d’altri tempi. A vent'anni era davvero convinto (e lo è tuttora che ne ha più di quaranta) che per vivere le esperienze accessibili attraverso allucinogeni o l'Lsd, lo psicodramma sia più che sufficiente.

Quando lo conobbi aveva riccioli neri sul collo, un'analisi con Dora Bernhardt cominciata e terminata in un mese per mancanza di fondi, una rivista underground di musica di cui era co-direttore, un'intensa consuetudine del grande poeta e saggista Juan Rodolfo Wilcock che gli aveva insegnato l'uso di metafore e di associazioni imprevedibili.

Rosati collaborava a Ciao2001 e al settimanale Il Mondo di Rizzoli per i servizi culturali e soprattutto aveva un fanatico amore per la psicoanalisi e un altrettanto fanatico amore per lo spettacolo. A volte diceva: "Voglio diventare uno psicoanalista", a volte: "Voglio diventare un regista" col fervore dei poeti, degli artisti, degli ideologhi; un fervore col quale avevo convissuto da quando a nove anni avevo scritto il mio primo romanzo.

Rosati si era presentato, spavaldo e presuntuosetto, all'albergo Hassler di Roma per intervistarmi sul mio libro Beat Hippie Yippie, senza essere mai stato nessuna delle tre cose e senza sapere nulla del loro significato. Come se non bastasse, mi disse subito che quel pomeriggio si era appena ribellato a non so che pretesa di sua madre e di sua nonna: "Sono stato duro con loro. Molto duro”.

Il suo registratore naturalmente non funzionava (un classico, per me) e sul mio piccolino giapponese ancora insolito in Italia mi fece domande sempre meno teoriche via via che le schivavo ridendo. Feci venire un gelato sulla terrazza popolata da turisti americani, gli offrii ironica la ciliegina che lo sormontava, la rifiutò. La nostra vicina americana si mise a ridere; Rosati mi guardò sospettoso e avidissimo di sapere perché. Gli recitai il verso di Allen Ginsberg, "He took my cherry", mentre la turista rideva sempre più forte e Rosati cercava di uscire dall'imbarazzo. Per uscirne mi portò nello studio luminosissimo di un avvocato romano suo amico che dietro una parete girevole nascondeva un laboratorio alchemico di profumi: l'apertura della parete sembrava la scena di un film di James Bond. L'avvocato mi disse, sornione, che avrei dovuto continuare a offrire al mio intervistatore gelati con la ciliegina e mi regalò un pentacolo e un profumo, con tanti auguri.

 

CHEZ-SANTUCCI

 

L'intervista con Rosati riprese e quando, nella mia ignoranza psicoanalitica, confusi il Super Io di Freud col Superuomo di Nietzsche, lui rise come si può ridere solo a vent'anni e si ritrovò finalmente a suo agio con una superiorità indiscussa che gli permetteva di fare il pigmalione, sua debolezza, o, come disse Joyce Johnson del suo fidanzato Jack Kerouac a proposito dell'invidia, "il verme che gli rodeva il cuore". Comincio così un'amicizia durante la quale potei osservare il processo di individuazione, come lo chiamano loro junghiani, che in vent'anni avrebbe visto il discepolo di Wilcock diventare uno dei più famosi e creativi registi di psicodramma. Durante la sua analisi didattica con il filosofico Mario Trevi, l'analista meno psicodrammatico che si possa immaginare, Rosati si avvicinò sempre più allo psicodramma che in qualche modo lo riaccostava allo spettacolo, l'altra sua passione di adolescente. Mi accorsi che, alla ricerca di un approccio allo psicodramma meno astratto di quello lacaniano, si spostò un po' alla volta verso autori di lingua inglese come Siegmund Foulkes, e Milton Erickson. Poi cominciò a ricostruire la storia e il pensiero di Jacob Levi Moreno, come se si trattasse di un nonno ingiustamente misconosciuto: in Italia per anni era stato messo al bando dagli ambienti psicoanalitici ortodossi, soprattutto da quelli che, senza leggerlo né citarlo, avevano sfruttato le sue invenzioni sulla psicoterapia di gruppo e gli action methods scivolati nel teatro di Robert Scheckner e nell'Actors Studio di Lee Strasberg. Così una volta che andai a New York, ritornai con un carico pesantissimo di volumi rilegati di rosso, una fotografia del maestro e altre reliquie. Ricordo ancora la visita che feci allora al Moreno Institute di Beacon, dove incontrai Zerka Toeman Moreno, la vedova che aveva collaborato con lui e ora dirigeva l'associazione internazionale di psicodramma.

Moreno era morto  nel 1947 ma la sua presenza riempiva ancora la grande casa georgiana bianca in mezzo al bosco, sulla collina di Beacon, un villaggio come ce ne sono tanti in America. Una città dal paesaggio dolce e profumato con gli scoiattoli in mezzo alle strade, con tante case piccole circondate da un giardino e una sola grande strada centrale. A Beacon arrivai in un paio d'ore da New York su un trenino da operetta sbarcando in una stazione sporchissima e deserta col capotreno munito di una trombetta ricurva e un solo taxi all'uscita, abituato a riconoscere al primo sguardo chi andava all'Istituto di psicodramma, l’unico centro di interesse della città che Moreno aveva scelto anni prima per la vicinanza con New York e perché il paesaggio col suo lago e le sue colline coperte di pini gli ricordava l’Austria.

Zerka Moreno mi portò a visitare il palcoscenico di legno chiaro dove Moreno aveva curato molti personaggi influenti dagli Anni Trenta ai Settanta con metodi che, prima di rimbalzare in Europa, avevano scandalizzato l'establishment psichiatrico e neofreudiano: quello di un’America che aveva appena finito di digerire la psicoanalisi e si era trovata negli anni cinquanta di fronte a un sistema ancora più trasgressivo e radicale basato sul teatro e sul gioco, a metà strada tra il  Living Theatre e il lettino di Freud.

La presenza simbolica del personaggio mi colpì negli spazi di Beacon. Nel teatro di legno a fianco dell'istituto dove centinaia di psicologi e psichiatri avevano trovato una specie di casa internazionale. Nell’arredamento contraddittorio e un po' trasandato, prima del restauro degli anni Ottanta che, evitandogli di diventare un monumento nazionale, avrebbe permesso di aggirare la legge e di poterlo cedere a una fondazione culturale. Nella grande biblioteca priva di sussiego con le traduzioni in trentacinque lingue tra cui giapponese e russo. Nella tipografia artigianale in cima alla collinetta dove Moreno aveva avuto l'idea di stampare la sua rivista e i libri della Beacon House per aggirare, mi disse Zerka, lo sfruttamento editoriale o forse, pensai, per il piacere di giocare un ruolo in più. Tutto in quegli spazi confermava il carattere alternativo dello stile di vita di Moreno: geniale, istrionico, antiaccademico. La sua scrittura era intuitiva, ispirata, globale, con aperture poetiche, pacifiste, profetiche. Uno psichiatra che pareva un poeta.

Era quello dunque il teatro che era stato meta di un pellegrinaggio di molti autori e attori; non solo del Living Theatre, ma anche da Hollywood, attori che avevano trovato in Moreno il terapeuta ideale per la comune vocazione per il palcoscenico. E se ne accorsero anche gli sceneggiatori cinematografici che lo saccheggiarono a più riprese, a partire dal film Spellbound (Io ti salverò) di Hitchcock fino a Tootsie con Dustin Hoffman.

Non starò a ripetere quello che mi disse Zerka Moreno durante l'intervista che mi rilasciò per il Corriere della Sera. Mi colpì soprattutto la sua grinta; non si trattava della solita vedova illustre ma di un vero personaggio che con caparbietà professionale, anche dopo la terribile malattia e l'amputazione del braccio destro (da cui, giovanissima, ebbe il coraggio di congedarsi in un suo psicodramma) aveva lavorato quel teatro fino a dieci ore al giorno. E mi colpì anche il suo umorismo, lo stesso con cui anni dopo, a Torino, sul palcoscenico del Carignano, avrebbe risposto agli applausi del pubblico battendo la sua unica, vecchia, tenerissima mano sulle quattro mani di un doppio Pirandello messo in scena da Rosati grazie a una coppia di gemelli calabresi. A Beacon venni a sapere di questi giochi di ruolo dove lo psichiatra e i suoi attori ausiliari diventavano i personaggi del romanzo familiare del paziente ma anche i personaggi delle sue fantasie e dei suoi sogni. Venni a sapere di un episodio per me straordinario. Una paziente schizofrenica, che in seguito alla morte per incidente del suo bambino era convinta di vivere all'inferno e non parlava più, non comunicava più, venne portata al teatro del dottor Moreno quando sembrò irrecuperabile. Moreno glielo mise in scena nel suo teatro, l'inferno del delirio, e chiese a un attore di gettare tra le luci rosse del palcoscenico un cuscino, parlandogli come se fosse il bambino della paziente condannato alle fiamme per l'eternità. Così la donna urlò e si alzò in piedi per interrompere il gioco e pianse e lottò e lentamente ritrovò prima la parola e poi la ragione.

Dopo quel racconto sentii che la forza del teatrino di Moreno stava tutta nella sua agilità, nella sua capacità di ospitare ogni linguaggio e di inscenare ogni sogno, individuale o di massa, senza perdere la propria pace e la propria integrità come succede spesso ai teatri troppo grandi e troppo potenti. Così, anni dopo, quando Zerka non ce la fece più a reggere l'istituto e decise di cedere l'archivio di Moreno all'università e di vendere la collina dove quel teatro era nato e dove l'avevo visto, fui felice di sapere che il palcoscenico non era morto. Fu solo smantellato, come si usa in America, e rinacque a Boughton Place nello Highland, dove una comunità di psicologi e sociometri lo rimontò, asse per asse.

Quando tornai da quel viaggio a Beacon e gli portai il mio prezioso bottino, Rosati attaccò la fotografia di Moreno accanto a quella di Jung e cominciò a tormentare il vecchio amico Mario Ubaldini perché pubblicasse i libri in Italia. Iniziarono i suoi viaggi a Beacon e Atti dello Psicodramma, la rivista fondata e pubblicata anni prima sempre per Ubaldini, cambiò aspetto riempiendosi sempre più di cose fatte in Italia e in America e sempre meno di cose pensate in Francia. Rosati mi chiedeva continuamente di spiegargli come e perché, nella letteratura americana, l’azione, come dice Fitzgerald, è personaggio e il personaggio è azione.

Cominciarono anche le regie teatrali di Rosati per avvicinare Moreno al teatro di Pirandello. Nel 1983, invitando Zerka Moreno a tenere al Flaiano di Roma con l'aiuto di Luigi Squarzina il primo psicodramma condotto in un teatro italiano, in omaggio a Questa sera si recita a soggetto. Poi realizzando l'Invito a un incontro per l'edizione italiana di psicodramma Sei personaggi in cerca d'autore per il Teatro Stabile di Trieste. E finalmente nel 1986 al Teatro Stabile di Torino con una memorabile messa in scena psicodrammatica di Ciascuno a suo modo, in onore dell'anniversario di Pirandello, nella quale Rosati convinse Pier Luigi Pirandello (figlio di Fausto Pirandello, il pittore) a dar vita al ruolo di suo nonno e Zerka Moreno a interpretar il personaggio della commedia che Pirandello chiama La Moreno (che tutti sanno chi e).

Ricordo che quando lo spettacolo-sociodramma, in onore dell'anniversario di Pirandello, dopo un intero anno di lavoro rischiò di essere bloccato da intrighi e scandali assai simili a quelli immaginati nella commedia, Rosati precipitò in una disperazione insospettabile in uno psicoanalista e altrettanto sfrenata della sua spontaneità: una disperazione dalla quale lo vidi uscire non con l'analisi ma convocando un’intera banda di “Pazzarielli” napoletani che rivelarono l’intrigo per le strade di una Torino sgomenta, in un Living Newspaper che legava il Teatro Carignano a piazza Carignano e a mezza città.

Per la prima volta la critica si accorse del suo lavoro e riconobbe che in questa tre-giorni futurista, fatta di autentici scandali, autentici pettegolezzi, autentici duelli, Rosati era riuscito a ridare vita agli intrighi ma la più bizzarra e irrappresentabile delle sue commedie.

Era abbastanza per soddisfare il piacere dell’effimero ed esaurire il filone del teatro nel teatro. La nuova avventura di Rosati fu quella di applicare allo psicodramma la videoregistrazione e poi la televisione, nel tentativo di fissare ed elaborare le immagini dell’anima in azione. Il tutto in un continuo stato di irruente eccitazione dove era impossibile per me capire che cosa fosse più forte, se l'amore per l'indagine, per la ricerca, per la scoperta scientifica o la passione per le storie, per le immagini, per lo spettacolo.

Dopo due anni di sperimentazione artigianale e precaria nel suo studio di Roma, il primo vero spettacolo-laboratorio intitolato Giocare il sogno - Filmare il gioco nacque finalmente a Torino in collaborazione col Teatro Stabile e il Festival Cinema Giovani. Mi riusciva strano che Rosati passasse regolarmente da una città all'altra per realizzare i suoi esperimenti; cominciai a sospettare che ci fosse in lui una personalità più creativa che analitica e che inizialmente ognuna delle due avesse bisogno di uno spazio diverso. Le novità di questo workshop erano quella di improvvisare il commento musicale dell'azione, quella di riciclare sul momento oggetti di scena ricavati dai magazzini e soprattutto quella, suggerita dal produttore Alfredo Bini, di chiamare nel gruppo veri attori di professione come interpreti dei ruoli negli psicodrammi. L'idea di Rosati era che, per la prima volta, le storie di un gruppo di psicodramma fossero filmate ininterrottamente per giorni e giorni da una troupe al completo.

Il laboratorio, dove i sogni erano stati messi in scena come dei film, piacque alla Rai abbastanza da finanziare la produzione di quattro puntate pilota di un programma senza precedenti. Così quando Angelo Guglielmi accettò la sfida di spettacolizzare l'inconscio in televisione, cominciò l'avventura di Da storia nasce storia. La trasmissione fu realizzata da RaiTre, ancora una volta a Torino, ancora una volta col Teatro Stabile ma con molti più mezzi e qualche cautela. Dalla preparazione dei gruppi fino al montaggio delle prime due serie il lavoro descritto in questo libro durò circa due anni. In un mese Rosati diresse più di quaranta psicodrammi di cui sedici furono scelti dalla Rai come storie efficaci da un punto di vista narrativo, con l'unico intervento di qualche taglio interno per ragioni di durata.

Forse l'aspetto più clamoroso di questa avventura fu la fuga dal carcere, davvero pirandelliana, di un detenuto che aveva appena rappresentato la sua versione dei fatti per cui era stato condannato. Forse fu la partecipazione dell’attrice napoletana Rosalia Maggio, con la sua rivelazione del miracolo che l’aveva salvata dalla prostituzione. Forse fu il librodramma dove Aldo Carotenuto, l'analista più famoso e più discusso d'Italia, rappresentò la storia d'amore tra Jung e Sabine Spielrein, una storia che, come avremmo scoperto un anno dopo, influenzò la sua stessa storia.

O forse l'aspetto più clamoroso di questo programma non sta nelle puntate descritte in questo libro ma nel fatto che durante il lavoro i tecnici della troupe uscivano dai loro ruoli professionali abbandonando telecamera e microfoni per entrare nello psicodramma?

Fatto sta che più di un critico salutò queste storie come la nascita di un nuovo genere televisivo e che lo scrittore Harold Brodkey, il "Proust americano", dopo aver capito il contenuto di alcune sequenze attraverso le sole immagini, parlò di “un miracolo possibile solo all’anima italiana”. In ogni caso il mio intervento si ferma qui perché, come ho detto, non so nulla di televisione né di psicoanalisi e non saprei valutare il risultato di questa loro combinazione da nessuno dei due punti di vista. Come è mia abitudine, ho solo raccontato i fatti, quelli cui ho assistito da vicino e quelli che ho ricostruito da lontano, perché, dopo tutte le storie che Rosati ha raccontato nel suo lavoro, mi è sembrato giusto che per la prima volta qualcuno raccontasse la sua. Chi la fa l'aspetti.

 

FERNANDA PIVANO

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