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A PROPOSITO DEL TEATRO DELLA SPONTANEITA' di Giuseppe Bartolucci

Postfazione alla prima edizione italiana del libro Il Teatro della Spontaneità

a cura di Antonio Santoni Rugiu (1973), Guaraldi editore

 

Questo pamphlet didattico-teatrale arriva in Italia in un momento particolarmente felice; poiché il prodotto non è soltanto contestato dall’interno, a teatro, adesso anche è rovesciato sensibilmente dai più. Parlo naturalmente di coloro che hanno un senso scenico avvertito e aperto. Aldo Trionfo, per esempio, che sovverte i moduli interpretativi borghesi per scherno del professionismo intellettualistico e psicologizzante; Ronconi, che per spazi differenziati e non usuali imprime all’interpretazione una incisività deformante tale da contrastare la discorsività e la drammaticità ufficializzate. Ma gli sperimentali vanno al di là da Carmelo Bene, deviante verso l'immagine, ma con la stessa energia anarchica, ai Nanni, ai De Bernardinis, ai Ricci, ed agli altri che stanno spuntando: tutti quanti ti avvolgono e distraggono il prodotto dalla sua funzione portante di comunicazione poetico-discorsiva: chi per tensione frantumante come il Nanni, chi per dispiegamento di negativo come De Bernardinis, chi per uso di materiali-oggetto sulla scia del gioco come Ricci.

Moreno, in Italia, non lo si capirebbe, né avrebbe senso schietto se non lo si collocasse all’interno di questa tematica antiprofessionistica nei momenti differenziati; e se non si presentasse ai fautori del non prodotto come indicazione di superamento materializzato dell’agire teatrale per una finalità diversa attraverso una comunicazione diversa.

L’uso di questo diverso, Moreno appropriatamente lo riversa verso la vita e verso la collettività, con una partecipazione-relazione che sulla morte del professionismo dispiegatamente accende situazioni e comportamenti di innegabile urgenza e di tipica effettuazione.

Moreno si batte per il non-prodotto (il suo amore per l’abbozzo e per il momento) sia come stesura letteraria del testo, sia come ambientazione scenografica, sia come accantonamento del professionismo interpretativo. Tutta l’opera, nella sua interezza, lo status nascendi prende forma sotto i nostri occhi, in una sequenza che è il rovesciamento di tutto ciò che avevamo visto finora: la genesi dell’idea, la concezione e la progettazione della scena, la distribuzione dei ruoli e la metamorfosi dell’attore.

La stesura letteraria: sia che Moreno parli di documenti di vita sia che vi esplori drammaturgicamente, declina ogni responsabilità del letterato quale privilegiato estensore e produttore del testo da rappresentare. L’ambientazione scenografica: niente di maggiormente antiscenografico della offerta di materiali poveri che Moreno propone, in uno spazio nudo e privo di suggeritori. L’accantonamento del professionismo interpretativo: non c’è denuncia più ragionata e vigorosa di quella che fa Moreno contro la sclerotizzazione dell’attore professionista in preda al consumo intellettuale ed estetico, per ripetitività di memoria e di atti. L’attore tradizionale è centripeto, l’attore spontaneo è centrifugo: il primo ricrea, assimila il materiale del ruolo in forma centripeta, cioè dal materiale fuori da sé, verso di sé al centro. Nell’attore spontaneo invece il processo di creatività ha la facoltà di emergere intatto in qualsiasi fase di sviluppo che l’artista sia in grado di dominare.

Così Moreno smonta disponibilmente e amabilmente, senza protervia o superbia, il professionismo dei suoi tempi, anni Venti, e dei giorni nostri, anni Settanta, in tutte le sue componenti: sia come strumento portante, consapevole o meno, di una merce da vendere e da scambiare (non quindi come valore d’uso, ma come valore di scambio), sia come cattiva coscienza di un modo di lavorare per privilegio e per separazione ambiguamente, per specializzazione e per rivendicazione al tempo stesso. Ma il teatro politico male usato si ritorce contro chi lo usa superficialmente; così l’uso alternativo del prodotto politicizzato, viene dimostrando la sua inanità a capovolgere lo scambio della merce e la finalità dell’agire teatrale (si eccettui Dario Fo, peraltro, glorificante il suo pubblico, nell’ambito di una socialità dialetticamente immobile, gli altri gruppi politici, agendo in una area brechtiana-piscatoriana, non escono dal prodotto ideologico-estetico se non per idealistica rivendicazione di contenuti). Il rispetto della separazione (spettatori-platea da un lato come impossibilità di conflitto creativo), e della specializzazione (come momento divisorio di responsabilità e di azione critica del fare teatro) hanno dimezzato e reso inefficiente il teatro politico appunto come prodotto alternativo.

 

 

 

L’uso dell’improvvisazione e della spontaneità: Moreno fa assai bene a smitizzare la spontaneità se questa non si costituisce come allenamento per la rottura della confezione sclerotizzata del materiale interpretativo; e fa altrettanto bene a richiedere all’improvvisazione una serie di dati costruttivi in vista di un loro uso non puramente istintivo e deviante drammaturgicamente: Il ritmo degli attori, la loro posizione in scena, e la sequenza delle loro azioni, non sono cose da prendere alla leggera: ogni caso particolare richiede una norma di velocità (ritmo), una norma di posizione (sociale), una norma di sequenza (unità); si richiede agli attori una specie di altruismo spontaneo che permetta agli altri di concludere il proprio discorso e la propria rappresentazione. Si è tanto parlato da noi di spontaneità e di improvvisazione negli anni scorsi, sfortunatamente e inadeguatamente per lo più. L’improvvisazione, da noi, professionalmente è spesso un alibi di impreparazione tecnica; sperimentalmente si è arenata sulla soglia del gioco e del divertimento quasi sempre; altrettanto la spontaneità è stata colta come un’accensione di vita pura e semplice oppure è stata ingoiata voracemente dall’ufficialità in cerca di rammodernamento (ma un’improvvisazione espressiva si congela per accensione estetica, e la spontaneità creativasi confonde con un’accumulazionesociale).

Moreno sa togliere all’improvvisazione l’ascendenza estetizzante e sa togliere alla spontaneità la ripetizione indistinta degli atti antiideologizzanti della vita. Una spontaneità creativaper improvvisazione socializzante attraverso il giocoe la relazionalità comincia con Moreno a prospettarsi anche per noi come momento elaboratore di un procedimento partecipazionale:

Il teatro del pubblico è un teatro comunitario… in altre parole abbiamo a che fare con il dramma a un livello tale che la separazione tra l’estetico ed il terapeutico non ha molto significato. È una comunità di attori senza un pubblico vero e proprio. La loro spontaneità e la loro creatività sono la nostra principale preoccupazione e la loro sincerità e integrità hanno un significato più alto della loro maestria. Nella legge spontaneo-creativa, le emozioni, i pensieri, i processi, le frasi, le pause, i gesti e i movimenti sembrano sulle prime rompersi in maniera informe e anarchica… il disordine non è che un’apparenza esteriore… è lo stratagemma del principio creativo che si allea con la astuzia della ragione, al fine di realizzare un’intenzione negativa.

Da questo punto di vista sono avvantaggiati tutti quei gruppi e quegli individui che hanno deformato e rovesciato il «prodotto», sia per «avvolgimento» che per «azione», sia per « materiali» che per «produttività»; ma a costoro incombe adesso, in una politica lungimirante e strategicamente giusta, non rimanere prigionieri di tale loro tendenza e di tale loro esperienza, quanto di rovesciarla su gruppi comunitari e su situazioni di lotta (quartieri e scuole in genere) attraverso animazioni-drammatizzazioni. Questo passaggio va giocato non idealisticamente, cioè sotto un impulso singolare ed esterno, ma materialisticamente per stato di conoscenza sociale, cioè per un’assimilazione sempre più corrosiva da parte del sistema di ogni mutamento di lavoro  oltre che di gusto, e per una rivendicazione proveniente da reali esigenze di partecipazione-relazione.

L’importanza di Moreno, in questo felicissimo pamphlet, è data anche dalla sua resistenza alla tematica degli anni scorsi in Italia, in Europa e in America: teatro fuori e dentro, nuovi spazi e vecchi luoghi, interpretazioni rovesciate o professionali, e via dicendo. Questa tematica si è assottigliata via via, di fronte alla durezza del sistema politico e sociale contro il quale aveva puntato i suoi strali ideologici ed indirizzato i suoi modi di lavoro, appunto sullo sfaldamento del «prodotto» e però con una intellettualizzazione dell’«azione» (da cui soltanto il Living per forza utopica era rimasto indenne, peraltro sciogliendosi perInanità sociale di intervento). Moreno esce indenne da tale tematica, e dalle esperienze che le hanno corrisposto (evidentemente per lui il professionismo grotovskiano e dei suoi adepti è fuori considerazione come elevazione di materiale e come privilegio di offerta), in quanto per lui l'agire teatrale va fatto deviare dall’intellettualizzazione ad ogni costo, sempre più lasciando spazio alla dimensione dell’esistenza (per partecipazione comunitaria, per relazionalità in conflitto, in modo da abbarbicarsi socialmente alle esigenze individuali, per collettività singolarizzata).

Direi allora che dopo i fastigi della corporeità, nelle sue varie accezioni più o meno rituali, più o meno materializzanti, e dopo i fastigi dell’azione di strada e della provocazione « involontaria », nei suoi vari momenti rivendicativi di contenuto e di forma (si pensi a Schechner come teorico e come sperimentatore di tale tendenza), stiamo tornando da qualche stagione ad una duplice riflessione sul modo di agire scenico «antiufficiale»: da un lato l’appostarsi sull’immagine, dal recentissimo frantumante Barba all’impareggiabile lunghissimo di Wilson, dallo stesso sperimentare per spaccati di gioco-immagine di Peter Brook ai nostri sperimentali più giovani (Vasilicò, Perlini, per far qualche nome), per determinare una trasparenza ed una profondità socialmente terapeutiche; dall’altro lato l’appostarsi sulle drammatizzazioni (in particolare di scuola) non come occasioni di vita o come momenti di riscatto astrattamente posti nella scuola ma come determinazione-partecipazione al fare ed al mutare, e come sensibilità comunitaria  all’immaginare ed all’inventare collettivamente. Si pensi a certe esperienze di viaggio  nel mondo dei bambini di Scabia alla ricerca di un teatro da fare su contenitori vuoti, o a certe animazioni-drammatizzazioni di insegnanti-animatori tese a suscitare creatività per didatticità teatralizzata con spinte di rinnovamento dal basso anche per il teatro dei ragazzi, o infine a certe manifestazioni di occasione, politicizzate nel senso corretto di un’aderenza di base su situazioni in movimento, Ronchetta e Salza ed amici a Torino in questo campo essendo maestri.

E siccome parliamo di noi, della nostra società, non è necessario dilungarsi sulla restaurazione in atto politica e culturale, quanto ribadire come essa si ripresenti all’insegna della difesa dell’arte, per quanto riguarda il teatro ossia della poesia del teatro; il che significa appoggiare tanti insensati che appunto in nome dell’arte, della poesia teatrale assorbono per esempio quasi tutta la disponibilità pubblica in denaro oltre che ricevere consensi indiscriminati da tutte le parti politiche; e di conseguenza sono da considerare con diffidenza e da tenere in sospetto quei pochissimi che fanno delirare pubblico e critica all’insegna di un professionismo più o meno: alto o elegante, profondo o per estensione, su nozioni idealistiche o ribelli che non fanno paura ad alcuno e che ancora una volta consolano santi e diavoli per una idealistica consolazione e rappresentazione dell’arte, della poesia. Così il professionismo, comunque lo si prenda, comunque lo si consideri, rimane oggi lo strumento più ambiguo e ambivalente dell’arte teatrale, nel momento in cui tende a ricondurre questo agire teatrale ad una confezione e ad una specializzazione e ad una divisione del lavoro, sotto lo stimolo di un’accelerazione di « consumo » scambiata per accensione « poetica », e nel momento in cui tende a finalizzare qualsiasi intervento relazionale dell’agire teatrale, fuori dal « prodotto », e verso « esplorazioni » del reale, in termini tendenzialmente comunitari. Allora l’avvertimento centrale di Moreno sulla fine del professionismo come dato di perfezionismo e di consumo alternativamente acquista un suo valore dominante e rientra in una autentica strategia di rinnovamento (il teatro secondo Moreno è il « posto dove, giocando, si esamina la vita nella sua forza e nella sua debolezza. È il posto della verità senza potere. Ciascuno ha tutto il potere che riesce a manifestare. È il teatro di tutti, il barlume dell’essere e della realtà, dove la realtà stessa viene esaminata nella sua realtà »).

Un significativo ritratto di Moreno è stato redatto da Paul Poertner (vedi "Teatro", 3, Samonà Savelli: Moreno da Vienna agli Stati Uniti) soprattutto per il passaggio dal teatro all’improvviso allo psicodramma: lo psicodramma è l’attualizzazione così del passato come del futuro, il tutto fissato nel presente. Lo spazio come spazio scenico concede una concreta libertà; da qui al gioco: imparare di nuovo a giocare come giocano i bambini — realizzare se stessi in un giuoco che non faccia differenze tra il reale, l'immaginario e il presunto — questo fattore determina la concezione dello psicodramma.

Il pensiero di fondo è di seducente semplicità: la nostra vita individuale è indissolubilmente legata al comportamento del gruppo; l'intreccio di relazioni all’interno del gruppo quale viviamo, dalla famiglia al gruppo professionale, determina il nostro sviluppo e la nostra salute. Giocare ci guarisce. Occorre solo essere capaci di giocare. Questo è l'insegnamento di Jacob Levy Moreno.

Uno straordinario disegno dell’influenza di Moreno sul teatro sperimentale in America è stato tracciato da Eric Bentley (Teatro e terapia, New American Review, 1969): come ambiguità di arte-viva su un concetto dell’arte beneficamente in disuso e su un uso della vita non intellettualistico. Bentley non cede alla tentazione educativa dell’arte sulla traccia del professionismo teatrale, e però si lascia sorprendere dalla urgenza della vita nel momento in cui si relaziona socialmente. L’urto è troppo traumatico e indelebile, perché lo si possa sciogliere di un colpo e liberamente.

La psicoterapia e lo psicodramma sono in grado di fronteggiare questo urto, se non proprio di scavalcarlo. Moreno allora si impadronisce di un’altra tematica: sulla liberazione del gioco, con il quale insegnanti animatori sì imbattono ogni giorno, a livello di sperimentazione di individui e di gruppi da far partecipare-agire.

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