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QUALE PSICOCINEMA? di Ottavio Rosati

(articolo per il booklet del DVD “Psychodrame” di Moreno e Rossellini edito da Istituto Luce Cinecittà, 2019)

Nell’autunno del 2017 Marco Greco (presidente del Moreno Museum association) è venuto a fare una lezione a Roma per la scuola IPOD e ci ha parlato con entusiasmo dei filmato di Jacopb Levi Moreno con "la regia" di Rossellini che aveva trovato, con l’aiuto di sua moglie Maria Cristina Sidoni negli archivi di Anne Ancelin Schutzenenerger.
Sentivo quasi fisicamente la sua trepidazione di “cine-archeologo” di fronte a un materiale filmico senza pari nella storia della psicoterapia di gruppo che tutti avevamo cercato invano per anni. E abbiamo deciso di festeggiarlo con “La medaglia Jacob Levi Moreno” coniata da Ettore Frapiccini prima per Zerka Moreno e Plays e poi per Rosalia Maggio, Fernanda Pivano, Vezio Ruggieri e pochissimi altri.
Intorno a questo premio vorrei ora condividere una storia di emozioni e scoperte, bricconerie ed equivoci che riguarda la collocazione dello psicodramma di Moreno tra cinema, video e televisione.



Andiamo nel 1980, un anno prima della morte di Lacan e sei anni dopo quella di Moreno, quando arrivò in Italia il famoso film della RTF sullo psicodramma di un matrimonio girato da Jean Luc Leridon alla Sorbonne.
Faccio una premessa come nei film storici che si aprono con un cartello scritto: in quegli anni non c’erano ancora in Italia né ordini né disordini degli psicologi. E nemmeno una vera e propria facoltà di psicologia o un albo delle scuole di psicoterapia che oggi spuntano non più come funghi (mangiabili o velenosi) ma come fili d’erba.
Nei pochi trattati di psichiatria (come quello di Silvano Arieti) e libri divulgativi sui vari tipi di psicoterapia esistenti, erano elencati una dozzina di autori e metodi. A Moreno e allo psicodramma veniva ovviamente accordata un’importanza centrale accanto a Freud, Jung, Adler, Rogers, Binswanger… Per la sua originalità a 360 gradi, Jacob Moreno emergeva come un personaggio carismatico e un gigante della scena terapeutica nonostante la scarsità di libri oltre che di fotografie, audio e video che sono centrali in un setting come il suo, fatto non di sedie e divani ma di azioni, immagini, spazi, movimenti e contatti. In quegli anni Ottanta le scuole storiche di psicoanalisi doc selezionavano con rigore i candidati al training, anziché annetterseli un poco alla volta a partire dai banchi dell’università, come fanno oggi alcuni professori.
Questo stato di cose spiega in parte la popolarità del cosiddetto “psicodramma analitico” insegnato dagli anni Settanta in Francia e in Italia da Gennie e Paul Lemoine, analisti della Ecole Freudienne, brillantissimi ma convinti che il pensiero di Lacan contenesse al suo interno ogni verità concepibile: Moreno? Non l’abbiamo letto e non ci piace. Del resto lo stesso ignoramento era riservato anche ad Anzieu, Kestemberger, Lebovici…
L’unico a studiare Moreno dai Moreno in quei tempi fu Giovanni Boria, pioniere italiano dello psicodramma classico che nel 1986 al Piccolo Teatro di Milano presentava la mia traduzione del Manuale di Psicodramma edito da Ubaldini, assieme alla Pivano, Roberto de Monticelli, Luigi Zoja e ad altri. E su quel palcoscenico sacro a Strehler, un giornalista televisivo come Alessandro Cecchi Paone si alzò in piedi per improvvisare un gioco di ruolo diretto da Giovanni Boria.
Anche se ebbe i suoi meriti, lo psicodramma dei lacaniani, analiticamente corretto, fu culturalmente scorretto (e a tratti arrogante) nel porsi come lo psicodramma in generale. Ma l’operazione trovò un suo pubblico perché alcuni psicologi italiani che, a torto o a ragione, non sarebbero mai stati accettati in un training analitico dalle Grandi Associazioni, entrando nello psicodramma analitico potevano dirsi e sentirsi sia psicodrammatisti che analisti: Paghi uno – Prendi due.
Da parte mia non lacaneggiavo, semmai junghettavo. E poi avevo un complesso di nonno (oltre che di padre e di madre) che fece un falso contatto con l’atteggiamento dei miei primi maestri, i Lemoine, che non parlavano mai di tele ma solo di transfert come se nelle dinamiche di gruppo, il primo non potesse coesistere con l’altro. Niente da fare: parlare di transfert era chic. Menzionare il tele sembrava cheap. L’empatia reciproca era una cosa californiana da Babbi Natale gestaltici. Lacan non era cordiale e non era tele-visivo. Fumava sigari a zig zag e spesso era incomprensibile, quindi (direbbe Popper) infalsificabile come un Dio. In confronto Moreno si affannava a fare felici le persone come Dulcamara nell’Elisir d’Amore di Donizetti.
Così, in quegli anni in cui ero drammaticamente innamorato dell’americanista Fernanda Pivano e dei suoi autori, feci di tutto per farla innamorare dello psicodramma di Moreno, che lei già conosceva per l’influenza che aveva avuto sull’Actors Studio, Elia Kazan, Strasberg, il Living Theatre e il Nuovo Teatro d’America. Ai quali aggiunsi due o tre film di Hitchcock tra cui Marnie e la scena madre di Agnese di Dio. Dopo aver organizzato con lei (e senza i Lemoine) al Flaiano di Roma il primo psicodramma tenuto in un teatro italiano grazie a Zerka Moreno su Questa Sera si Recita a Soggetto di Pirandello, nel 1980 trascinai la Pivano al Moreno Institute di Beacon (N. Y.) dove, mentre lei intervistava Zerka Moreno per Il Corriere della Sera e Atti dello Psicodramma me ne andai a ficcanasare per la casa e il teatro. Guidato da Hermes, addirittura mi intrufolai attraverso una finestra nella vecchia redazione della Beacon House in mezzo al giardino, alla ricerca di libri e soprattutto di immagini che mi sembravano un tesoro inaccessibile e proibito. Finché in un angolo trovai alcune fotografie e una pizza di metallo coperta di etichette e polvere. Dentro c’era il film in celluloide dello 
Psicodramma di un Matrimonio di Moreno girato alla Sorbonne nel 1964 che avevo cercato invano in Francia negli archivi della RTF dove in teoria si sapeva che c’era ma in pratica non si trovava.
Guardai i fotogrammi in trasparenza contro la luce della finestra e per poco non mi venne un colpo per l’emozione di vedere Moreno col papillon a sbracciarsi carismaticamente davanti a un uomo con gli occhiali da sole, in un salone di lusso davanti a Zerka giovane e a un bel bambino (suo figlio Jonathan). Era Lui. Il Padre dei Padri. Il fondatore della terapia di gruppo. Il terapeuta-teologo che, se solo avesse avuto un euro di diritti d’autore per ogni psicodramma fatto nel mondo, sarebbe stato più ricco di una pop star.

Permettetemi una libera associazione/confessione: lo stesso sentimento trionfale di aver trovato il Grande Nonno Nascosto, mi tornò nel cuore molti anni dopo in un paese di montagna abruzzese con boschi simili a quelli di Beacon dove mi ero arrampicato in seguito alla scoperta de “La sindrome degli antenati” della Schutzenberger per fare una febbrile detection storica sulla cappella underground della famiglia Rosati che sembrava scomparsa nel nulla e che finalmente saltò fuori in un mandorleto che l’aveva coperta di petali rosati. Quando la scoperchiammo e scendemmo con una torcia tra i cari estinti, nel buio feci un incontro shoccante: vidi per la prima volta mio nonno Giuseppe che se ne stava lì rassicurante e tranquillo. Una certezza. Era al suo posto. In qualche modo reale, vivamente morto direi, non dico vivo ma certamente, presente. Insomma una realtà sicura, la prova inconfutabile che prima di me e dei miei genitori c’era stato lui. Mi spiego?
Se mi fece questo effetto il bianco di un teschio sotto terra a Capestrano, figuratevi che provai davanti a un film in bianco e nero di Moreno tra New York e Parigi.
A Beacon mi sembrò di aver trovato in quella vecchia pizza di celluloide il Santo Graal. E, col cuore che batteva, sentii di doverlo portare (anzi riportarlo) in Europa. Devo essere sincero: forse chiesi il permesso a Zerka o forse no. Non ricordo bene. Forse quel film lo portai in Italia di nascosto nella valigia come accade in quei sogni in cui le cose molto importanti possono essere ottenute solo rubandole simbolicamente al nostro persecutore interno. Credo che l’ansia e la colpa venissero più dai Lemoine che da Zerka. Ma anche dall’idea pericolosa e sbagliata che o si è registi o si è psicodrammatisti: le due cose insieme sembrano proibite. È questa l’idea che Moreno fece saltare teorizzando l’importanza dello psicocinema al quale affidava diverse funzioni sociali, psichiatriche e culturali descritte in un capitolo del secondo volume di Psychodrama.

Fu il primo passo di quello che (grazie anche all’incoraggiamento della Pivano e di Lewis Yablonsky), avremmo fatto in Italia con Rai3 e lo Stabile di Torino negli anni Novanta, realizzando Da Storia Nasce Storia. Il primo programma televisivo fatto solo di veri psicodrammi, in sedici puntate, trasmesso in prime time, che realizzava la profezia di Moreno, La regia televisiva era di Claudio Bondì, che per curiosa coincidenza era stato assistente di Rossellini e che si preparò alla produzione partecipando a veri gruppi per mesi. Comunque nel 1980, quando portai il film girato da Jean Luc Leridon in Europa, lo feci copiare in VHS e, prima di restituire la pizza a Beacon, mandammo una copia a tutti. Ma feci un errore che oggi Marco Greco ci permette di correggere: attribuii il ruolo di operatore a Roberto Rossellini che, in realtà fu il regista del cortometraggio che Marco ha trovato nel 2017 negli archivi della Schutzenberger, con Claude Lelouch operatore (scusate se è poco). Mi riferisco alle riprese dove compaiono Zerka e James Enneis ed un gruppo di attori che Moreno esorta a improvvisare in una specie di simulata. Evidentemente a Roma sbagliai a capire quello che mi aveva detto Zerka confondendo le riprese che Rossellini girò da regista nel 1956 con il cortometraggio filmato alla Sorbonne. Tra l’altro, Zerka raccontò alla Pivano che quel giorno (ma quale dei due?) il regista e Moreno avevano aspettato anche Charlie Chaplin che però non arrivò in tempo sul set-setting perché era stato bloccato dal traffico di Parigi.
Equivoci a parte, in quel mio export mercuriale degli anni Ottanta ebbi la sensazione esageratamente archetipica di poter resuscitare col cinema un eroe psicologico ingiustamente mortificato. Che oltretutto si muoveva in scena con una carica energetica carismatica e sopra le righe, degna di un Pavarotti e a momenti del grande Totò.
Sono passati gli anni e la profezia di Moreno è stata in parte realizzata, in parte banalizzata, in parte tradita. Perché il vero psicodramma in tele-visione è scomodo e fa paura. Può turbare le persone indifese. Giusto? Non è mica come un normale horror, una tranquilla battaglia o la normale cronaca di una violenza fisica o morale alle quali siamo abituati. E nemmeno assomiglia alla celebrazione artistica dei criminali e degli assassini di Gomorre, Suburre e Camorre recitate, illuminate, costumate e pubblicizzate nel migliore dei modi. Lo psicodramma è pericoloso! E, a questo proposito, rivelo qui per la prima volta che negli anni Novanta la produzione di Da Storia Nasce Storia che realizzai pèer Rai3 sotto la direzione di Angelo Guglielmi preoccupò i dirigenti della Rai al punto che, prima della messa in onda, si spaventarono e fecero fare una ricerca di mercato con gruppi sonda per vedere come avrebbe reagito il pubblico a un programma potenzialmente traumatico.
Incredibile ma vero: negli archivi di Plays conserviamo una copia di questo studio fatto a regola d’arte dalla Mesomark e costato non poco. L’agenzia garantì che forse il pubblico ce l’avrebbe fatta a vedere la psiche in azione. E Da Storia Nasce Storia andò in onda.
Oggi l’incontro tra riprese video e psicodramma almeno dal punto di vista tecnico è più facile perché le nuove forme di tele-fonia e tele-camere permettono una produzione a costo zero. Ma per altri versi qualcosa ancora ci sfugge e fugge lontano da noi. Sono convinto che le recenti scoperte di Marco Greco ci aiuteranno a capirlo. Credo che, oltre a darci la gioia di vedere un Moreno inedito, ci saranno di esempio, di stimolo e di aiuto. Who shall survive? I Giganti della Montagna con la loro volgare tracotanza o la carretta di Pirandello e Moreno con la sua nuova, elegante agilità?

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