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DAL TEATRO DELLA SPONTANEITA' AL TEATRO DEL VOLO di Giuseppe Bartolucci

Questo articolo deriva dall'intervento che Giuseppe Bartolucci tenne nel 1983 nelle due giornate di studio al Flaiano di Roma dopo il primo psicodramma tenuto in un teatro italiano, con Zerka Toeman Moreno, Ottavio Rosati e Fernanda Pivano.

Com'era bravo Moreno in quegli anni, parlo degli anni sessanta, stando al botteghino e raccogliendo i tre dollari di entrata per il servizio psicodrammatico notturno, assieme alla moglie; era dolce, spagnolesco, infantile, un po' abbondante di pancia, ma l'occhio gli usciva acuto e vivido; sua moglie, in nero, un po' rude e severa, stava già ai lati del palco nudo, con le seggiole e il tavolo, in attesa di entrare in scena, e di reggere l'azione; con questo o quel personaggio della New York sommersa e precipitosa, cruda e vigile, attori e attrici malati o nevrotici (ci dicevano) in stato di grazia e di risarcimento, più un nugolo di turisti venuti lì per professione, per curiosità, per scandalo non si sa bene, tra cui noi italiani in cerca di avventura teatrale, di scena metropolitana, per la prima volta a New York, senza respiro, senza sosta. Che fare se non nascondere un sorrisino e riflettere qualche sospetto per quell'uomo celebre a suo modo ma non certamente accademico, per quella signora che troppo scopertamente offriva il volto di tedesca crudele e impietosa. Si stava lì, in un angolo con la voglia di scappare in fretta, e però non ci si muoveva più sino alla fine. Per me era uno spaccato di vita che feriva la notte azzurra di New York, e che attraversava la nuova scena americana, quella del Vietnam, della rivolta studentesca, oltre che quella del Living e dell'Open, del Bread and Puppet e via dicendo; era difficile entrare in quello spazio, in quella cerimonia, con tante persone attorno che inseguivano sogni, fuggivano da sé, soffrivano di paure e desideravano la felicità, stando almeno alle espressioni del volto, o al movimento nevrotico delle mani; ma bastava che Moreno, dietro il suo gran sigaro spento, facesse cenno con la mano di illuminare il palcoscenico, e che sua moglie in tenuta nera vi si imponesse tragicamente per brevi parole e per richiami leggeri, perché ciascuno di noi si sentisse coinvolto, e patteggiasse per i personaggi-attori che nel frattempo spontaneamente o meno erano già sotto la luce livida del palco e si aprivano alla magia della signora. Eppure noi italiani, almeno io, continuavamo mentalmente ad opporre resistenza a questo gioco, soprattutto contando sul sorriso di Moreno, che snocciolava in un angolo necessariamente i dollari e i biglietti, in maniera così disinvolta e così scoperta da apparire un mercante, che so, una persona di servizio. Là, a pochi passi, la signora giocava di tensione e di lucidità, con abilità e con persuasione, senza che filo d'aria si muovesse, senza che tutt'attorno si sentisse un battito di ciglia.

Non sto a ricordare quel che avvenne quella sera a New York, l'azione era a rilancio, guida e partecipanti, signora Moreno e personaggi, sappiamo tutti ora la tecnica e i modi dello psicodramma di casa Moreno, vi si sono precipitati specialisti e discepoli, non c'è probabilmente alcunché da aggiungere se non rispettare le varianti e il successo perché no; ma io allora ero rimasto colpito dal vuoto della scena, dallo scambio dei ruoli, dalla narratività drammatica, dalla novità dell'azione. Né altro desideravo se non osservare e sentire, stare dentro e fuori, non farmi complice per istinto e nemmeno essere puro testimone. Così mi colpiva lo squarcio di vita che ne veniva, e quell'infelicità sotterranea di coloro che stavano sul palco, oltre la loro tragica dimostrazione di difficoltà di comunicare; ed avevo anche qualche perplessità di fronte alla direzione dell'azione che la signora Moreno imponeva sia pure liberalmente, ma senz'altro per finalità sperimentata a lungo. Insomma mi piaceva di più il gioco nel suo insieme, quell'entrare ed uscire di scena allo scoperto, quell'improvvisare tra teatrale e quotidiano, su una traccia data, su un cammino da percorrere; quel tracciato appunto di arte e di vita altamente teso e perdutamente a vuoto, su una illuminazione paziente, medicale, e su un versante interpretativo insolito, orizzontale. Ne ero affascinato e un po' nauseato, leggermente scosso e indifeso; e dal buco interiore dello scantinato uscendo nella grande anima delle strade oltre la cinquantesima, a tardissima notte, avevo bisogno di camminare a lungo, di farmi sorprendere dallo sguardo dei grattacieli e delle insegne, di vuotarmi di quella energia e di quelle contraddizioni dentro la sala, con un particolare abbandono per le scene di vita, quasi in un film per il quale non avessi pagato il biglietto e che quindi dovevo vedere di traverso, nascostamente.

In verità quella notte io avevo trafugato un libretto dalla copertina rossa, stampato da Moreno a sue spese senz'altro, e così mi ero trovato nella valigia al ritorno Il teatro della spontaneità in un'edizione americana del Cinquanta e l'inverno seguente, a casa, a Milano, trovandomi senza lavoro momentaneamente, e buttando giù America hurrah, poi pubblicato dalle edizioni del Teatro Stabile di Genova, l'avevo distolto da uno scaffale e me ne ero imbevuto letteralmente. Tant'è vero che mi misi subito a cercare qualcuno che lo volesse pubblicare, già avvicinandosi gli anni Settanta con il decentramento e l'animazione nei sogni e nella pratica di insegnanti, di attori, di gente di teatro e di terapeuti, di pedagogisti e di artisti, di politici e di amministratori tutt'assieme. Così Guaraldi a poco a poco entrò nell'idea di metterlo alla luce, e chiamò Santoni Rugiu per la parte didattica e me per quella teatrale, in un'edizione che di lì a qualche anno sarebbe andata per così dire a ruba (anche se a Moreno non fu versata dall'editore una sola lira dei diritti d'autore), ma che dapprima stentò a farsi strada per la semplicità clamorosa con cui si impostava il discorso drammaturgico, per la complicità insomma dell'animazione didattica che il teatro della spontaneità proponeva. Spontaneità e creatività, animazione e teatro, decentramento e partecipazione sono scivolati giù dal libro di Moreno e si sono accoccolati presso almeno un paio di generazioni, ed oggi sembra un sogno soltanto scrivere queste parole e metterle in fila, quasi che siano tutte morte e fucilate, in questo deserto metropolitano degli anni ottanta, in queste diffrazioni tra ideologia ed estetica, in questi tranci sanguinanti ed indifesi di etica e di pratica. Moreno ne Il teatro della spontaneità in effetti mescolava i suoi mitici ricordi di animazione nei parchi di Vienna, con prostitute e bambini, su alcune disposizioni di gioco drammatico spontaneo su tecniche e modalità fuori campo, e così attirava e si faceva odiare per la sua diretta partecipazione e per la sua oggettiva esperienza. Ed allora da un lato sembrava quasi impossibile che un simile Moreno potesse dirci ancora qualcosa della grande cultura austriaca degli anni venti, con quella pratica di superficie, con quella miscela antintellettuale; mentre dall'altro lato davvero sembrava sulla soglia e dentro gli anni sessanta che quel suo libretto avesse tanta divinazione e tanta predizione, tanta voglia di cambiar scena e scuola arte e didattica, sull'onda di quell'eroico e comico assieme impegno creativo partecipazionale dell'Italia del doposessantotto, a teatro e nelle scuole, tra i bambini e i malati. Così Il teatro della spontaneità è uscito ben presto di scena tornando nell'oblio come lo era stato negli anni passati, lasciando probabilmente parecchie nostalgie collettive e qualche impedimento di coscienza, almeno tra coloro che avendo trent'anni nel settanta adesso navigano feriti e rinchiusi dentro gli ottanta e oltre. La drammaturgia della vita, l'attore che improvvisa, le scene che non si fissano, le parole che fanno da cuscinetto, l'azione che si tende e si riflette, la scena nuda e senza decoro, le luci esatte e senza illuminazioni; possiamo tuttavia supporre che questo destino infranto e provvisorio del teatro della spontaneità sia anche della natura di Moreno e del suo gioco, appartengano alla cultura spregiudicata e cangevole della maniera di agire e di scrivere di Moreno, e quindi sia di proprietà del personaggio Moreno oltre che dello studioso, del suo modo di vivere e di offrirsi oltre che della sua qualità di redigere e scrivere.

Allora assistere questa volta, anni Ottanta, a tanti anni di distanza ed attraverso tante esperienze teatrali, al gioco drammatico della signora Moreno, mi è risultato così distante e così oggettivo da costituire una specie di quadro, di spettacolo, di film, di museo, e d'altro canto, essendo la qualità di conduzione da parte della Moreno così nitida e suasiva, mi è entrato per così dire dalla parte del cuore e quindi mi ha più volte commosso. La Moreno adesso è così sicura di sé e così familiare da non soffrire alcun scompenso per sé e per chi gli sta attorno, ed il suo gioco è talmente a lunga durata ed al tempo stesso così presente da potersi rappresentare penso scientificamente ed artisticamente. Questo è conseguenza di una maturità bellissima e di una provocazione antiscolastica, fa sì che se ne possa non tanto dare dimostrazioni e ricette quanto applicare ancora una volta piacere e gioco; e non c'è di meglio che dare spazio agli occhi ed allo sguardo, ed insistere sulle passioni e sul piacere, per questa operatività né scenica né di vita, né accademica né dopolavoristica, finalmente mettendoci fuori dagli equivoci di troppi riferimenti culturali e direttamente fuori campo per manifestazioni partecipative. Probabilmente per tanti lo psicodramma essendo diventato un approccio o un mestiere, è oggi fondamentalmente oggetto di studio e di ricerca; dal punto di vista teatrale, il gioco tra il teatro della spontaneità e l'allenamento psicoterapeutico è ancora in stato di squilibrio e quindi di tensione. Poter ancora lavorare sugli scarti di animo e sulle ferite relazionali è non soltanto una piccola sfida ma anche una illuminazione contro il deserto e la morte. Queste considerazioni mi sono venute lungo il tragitto dal Teatro Flaiano a casa mia, per ben quattro chilometri, in una notte leggera e nitida romana, scavando fra le memorie di un tempo e la suggestione dell'occasione; e così esse stanno penso proceduralmente e amichevolmente dalla parte di Moreno, e di sua moglie soprattutto, come tenerezza di ricordi importanti e in un certo qual modo decisivi e come riserbo e contenutezza di un discorso critico ed esistenziale al quale siamo obbligati e ricondotti ognora.
Diciamo che dalla signora Moreno [che nel 1983 Ottavio Rosati e Fernanda Pivano hanno invitato a Roma] al Flaiano ci sono venute incontro alcune operazioni figurative, e che ci sono state trasmesse indicazioni di metodo soltanto?

Vogliamo davvero credere che si possa illustrare lucidamente e spietatamente metodi e modi di prelievo di umanità ferita e che ci si possa fare carico culturalmente e quindi storicamente non di esperienze reali ma di loro riproduzioni? In verità la signora Moreno è talmente al di fuori di vecchie polemiche sullo e contro lo psicodramma di Moreno ed ha una felicità così personale ed attuale di ragionare per saggezza e per profondità da non lasciarsi ingabbiare da circostanze, da occasioni. Così l'estetica per figuratività è talmente deprivata di mordente se la si vuole riproporre, da non lasciare spazio per una comunicazione che a suo modo insegue la verità e non l'apparenza, il sogno reale e non la sua rappresentazione. Allora forse bisogna ricondursi alle scissioni, al tragico che comportano il gioco psicodrammatico, e non farsi consolare o dannare dalla quantità di bellezza e di figuratività appunto che corpi e parole, situazioni e azione possono far saltare all'occhio dello spettatore. In verità la rincorsa ai sogni e alle loro conseguenze, l'inseguimento delle contraddizioni per approssimarsi alla realtà, richiedono tempi talmente lunghi da non farsi ingoiare da un'interpretazione teatrale tout court e nemmeno da una dimostrazione di avvicinamento e di esplorazione per segmenti di tempo. Non è questione di essere spettatori e nemmeno allievi, quanto di entrare nel gioco lucidamente e distesamente, su un percorso accidentato ma non perduto, e per una finalità di piacere e di rivelazione, di pulizia mentale e di esplorazione fisica. L'occasione, al Flaiano, naturalmente era abbastanza pericolosa o meglio accidentata; critici che richiedevano immediatamente riscontro per la recensione; scienziati che non volevano ammettere la nudità e la chiarità di una pratica di solito svolta a tu per tu e comunque tra pochi, attori che sembravano essere stati addestrati lì per lì e che stentavano a farsi prendere totalmente dall'operazione per mancanza di abitudine e per insofferenza di lavoro, e poi tanti altri personaggi di cultura non consapevoli della qualità del gioco della signora Moreno e quindi sospettosi di ciò che accadeva ed insomma sensibilmente fuorvianti. A questi appunti sollecitata da me ha risposto assai bene la Moreno, quando ha detto che ultimamente è diventata meno direttiva per così dire ed ha imparato a fidarsi di più dell'autonomia del protagonista dello psicodramma, che è sufficiente rispettare il riscaldamento di quest'ultimo ed avere meno ansia di produrre, ciò anche per la precisione del metodo e per la qualità dei suoi modi. Non so se fosse pienamente convinta dell'osservazione per la quale notavo una certa soddisfazione, una certa consolazione in tutto ciò, quasi che la tragedia del vivere e le sublimazioni che le si contrappongono su cui in definitiva lo psicodramma riposa, fossero distanziate e marginalizzate. E tuttavia ricondursi alla morte da un lato come presenza dell'irrealizzabile ed all'impossibilità di riabilitare il reale per interpretazione, inevitabilmente ci si ripropone proprio dalle parole e dal lavoro della Moreno e della sua scuola, dalle sue rappresentazioni e dalle sue interpretazioni, appunto come ha detto la Moreno per investimento di più piani soggettivi e di più versioni interpretative. Salvo chiedersi ancora se il gioco psicodrammatico vivendo dapprima fortunatamente di sottrazioni e quindi di scompensi poi davvero ci conduca ad acquisizioni e a liberazioni e non forse ad altre sottrazioni e ad altri scompensi. Ciò per il teatro e la vita contiguamente.

SUMMARY

From the Theater of Spontaneity to the Theater of Flight
The Author, who is a critic and essayist for the "Teatro di Roma", is particularly interested in avant-garde theatre and drama research. He recalls his meeting with Moreno in the Sixties in New York, the destiny of his first translation of The Theatre of Spontaneity in Italy and considers Zerka Moreno's first psychodrama recently held at the Flaiano Theatre in Rome and its connection with the new cultural situation in Italy.

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