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SILENCE. OVVERO ELOGIO DELLA TIEPIDEZZA di Patrizia Burdi

 

 

SILENCE. OVVERO ELOGIO DELLA TIEPIDEZZA

 

Patrizia Burdi

 

“Una parabola quietamente potente che riesce a insinuarsi sotto le resistenze razionali per penetrare nell'inconscio di chi guarda”. Questo il titolo di una delle mille recensioni che costellano il web dall’uscita di Silence, ultimo e molto atteso film di Scorsese, tratto dall’omonimo libro di ShūsakuEndō e remake molto fedele di un film presentato nel 1971 a Cannes,  Chinmoku, per la regia di Masahiro Shinoda. Questa non vuole essere una recensione, ma una riflessione rivolta a coloro che il film l’hanno visto e magari ne sono usciti sconfortati, per sanare il malessere che l’entusiastico apprezzamento da parte della stampa cattolica mi ha suscitato.

Un titolo inquietante, ma esatto. Esatto perché il discorso che padre Ferreira (il padre gesuita sulle cui tracce si mette il giovane protagonista) fa al suo ex allievo – che ha affrontato ogni pericolo al fine di riabilitarlo dall’accusa della sua infedeltà a Cristo – al fine di persuaderlo a intraprendere come lui la via dell’abiura appare ammantato da tale aura di verità da convincere non solo il disperato giovane, ma anche l’ignaro spettatore. Ci si aspettava disagio, lacerazione, sofferenza interiore per il suo essere lapsus, scivolato, come anticamente erano definiti i cristiani che rinnegavano la loro fede per ritornare al paganesimo. Invece ci si trova d’innanzi a un uomo sicuro di sé e rispettato, impegnato a scovare le inconsistenze nell’Antico e Nuovo Testamento e alle sue motivazioni articolate, plausibili, “politicamente corrette”, semanticamente sottili. Estremamente convincenti in una temperie come la nostra in cui la parola d’ordine non è  più “salvezza” ma “ecumenismo”.

 

“Il Giappone è una palude”, continua a ripetere padre Ferreira come se le parole dell’Evangelo non avessero la forza sufficiente di fiorire ovunque. Come se il Verbo incarnato non fosse in grado di colmare e arricchire qualsiasi diversità culturale, anche la più radicale. L’apostasia del giovane sacerdote Rodriguez, che fatalmente segue le orme del suo maestro, finisce per mostrarsi come una forma di nuovo eroismo, una sorta di distorta “resistenza” e non come l’accomodante silenzio di un prete che ha abiurato e ha continuato opportunisticamente ad abiurare nel corso della sua vita anche quando non ve ne erano altre in pericolo. Sinuosamente, la scelta di calpestare le immagini sacre per salvare dal massacro altri esseri umani e quella di continuare a farlo per mantenere il raggiunto status quo finiscono per assimilarsi: ma se la prima è il Cristo stesso che la imporrebbe, ed è quella che ha mantenuto in vita tanti fedeli, la seconda, da parte di un consacrato, è un mero atto di convenienza umana. Una pratica, quella del fumi-e, talmente usuale per chi commerciava con il Giappone da essere ben conosciuta in Europa e già esecrata nell’Epoca dei Lumi: nei Viaggi di Gulliver di Jonathan Swift Lemuel chiede la grazia di esserne esentato all’imperatore del Giappone e “sua maestà, quando seppe dell’interprete di codesta grazia che domandavo, rispose molto meravigliato ch’ero il primo olandese al quale fosse venuto codesto scrupolo”. E nel Candido di Voltaire, quando il filosofo Pangloss cerca di far ragionare il marinaio che tra le macerie del terremoto di Lisbona si affanna a depredare i morti per spendere quei denari in gozzoviglie, si sente rispondere: “Sangue di Giuda! Io sono marinaio e sono nato a Batavia; ho calpestato quattro volte il crocefisso in quattro viaggi in Giappone; hai proprio trovato l’uomo giusto per la tua ragione universale!”.

 

Peccato inoltre che nel film inoltre non vi sia benché minimo cenno alla peculiare strategia di evangelizzazione dei Gesuiti in terra nipponica che, puntando alla conversione dell’élite feudale grazie anche a doni preziosi, conoscenza della lingua nativa e fair play aristocratico, era riuscita a cristianizzare interi clan. Strategia apparentemente vincente, almeno nella breve durata, giacché nel 1603 erano più di 300.000 i giapponesi convertiti. Una evangelizzazione però centrata sull’idea di un Dio potente, inaccessibile, maestoso, creatore dell’universo – idea di Dio già insita nella religiosità giapponese, se pensiamo che l’Imperatore era divinizzato e chiamato “sovrano celeste” – e meno sulla figura del Cristo sofferente e compassionevole, che forse invece avrebbe potuto, nella media durata, esercitare un maggior potere d’attrazione sulla popolazione contadina e buddhista.  Ma al di là di quest’ultimo appunto formale, al quale mi spinge il grande amore per Scorsese e il suo modo minuzioso di fare cinema, ciò che mi ha profondamente disturbato è imputare a Dio un silenzio che finisce per diventare complice e colpevole.

 

Dio tace di fronte al dolore umano. Quindi Dio o non esiste o è indifferente. La terza possibilità, che il suo Verbo ci parli continuamente ma noi non riusciamo ad ascoltarlo perché disturbati dal rumore di fondo del nostro ego e dalla nostre aspettative, non è data. Ma che il dolore, la morte, la violenza e l’ingiustizia – frutti malati della lontananza da Dio, sommo bene – siano stati sanati da Cristo con il suo dolore, la sua morte, la violenza e l’ingiustizia subita, per un cristiano non è una discutibile opinione, è il fondamento della sua fede. Altrimenti i patimenti di Gesù e di coloro, numerosissimi, che hanno voluto seguire il suo esempio e la Resurrezione sono gli uni un inutile strazio da evitare e l'altra una remota quanto non verificabile eventualità, incapace di abbracciarli e giustificarli.  Altrimenti i nostri martiri, sul sangue dei quali si è edificata la Chiesa – un sangue, si badi bene, che è individuale e cosciente sacrificio e non insensato massacro di altri esseri umani – da testimoni luminosi diventano antenati imbarazzanti e ormai démodée. Ma sembra ormai fuori luogo ribadirlo, tutti presi come siamo a non urtare troppo altre suscettibilità religiose. Tutti presi a giustificare, ammorbidire, rendere la nostra fede appetibile nel fiorente mercato del bricolage spirituale.

 

In questa prospettiva, in cui la tiepidezza della fede è giustificata, l’apostasia celebrata e il dubbio diventa una star, gli umili contadini che parlano di Paradiso e morendo cantano inni finiscono per diventare imbarazzanti nella loro incolmabile ignoranza... Quando nel 1956 fu pubblicato il romanzo di Endo, così come all’uscita del film nel 1971, le gerarchie cattoliche giapponesi espressero forti riserve, per via della centralità data alle vicende di un apostata. Del resto, già dagli anni ’70 Endo aveva progressivamente sposato una posizione decisamente monofisita, à la Tolstoj, enfatizzando cioè la natura umana di Gesù, a detrimento di quella divina. Oggi invece, il film è celebrato e osannato in Vaticano. Stranisce che su questioni così fondamentali come martirio e fede vi siano mutazioni così radicali in così breve tempo.

 

Ci saremmo auspicati, infine, per dare giustificazione all’entusiasmo della stampa cattolica, che il consulente teologico di Scorsese avesse almeno ricordato al regista di mostrare, insieme all’odioso rituale e-fumie, reiterato come una tortura tra le torture, anche la pratica del Konchirisan no yaku, l’Atto di Contrizione pubblicato nel 1603 dagli stessi Gesuiti ancora presenti in Giappone e la cui recita consentiva ai fedeli di essere assolti dall’odiosa pratica senza la necessità della mediazione di un sacerdote officiante. A testimonianza dello strazio che essa provocava nel fedele.Di tale strazio e di tale preghiera, invece, nel film non v’è traccia, anzi ci viene mostrato un prete apostata che continua, anche infastidito, a confessare... Molti Kakure Kirishitans (Cristiani nascosti), perdendo il senso delle loro preghiere, approdarono a una forma sincretica di culto degli antenati e veneravano i loro martiri. È per qual sangue e non per l’abiura dei consacrati che il Cristianesimo è ancora presente in Giappone.  Quando, dopo duecentocinquanta anni, il Cristianesimo ha cessato di essere perseguitato, la prima cosa che i hanno richiesto sono state le icone della Madre di Dio. Sopravvissuti vivendo una doppia vita e facendo quotidianamente atto di costrizione, il loro primo bisogno è stato quello di affidarsi a Colei che è la grande mediatrice per il perdono della debolezza della loro fede, come lo stesso Endo racconta in una sua straordinaria novella, Mothers. Ma di Lei non v’è traccia, come non v’è traccia di un atto di umiltà e contrizione, che ci sarebbe piaciuto almeno intuire nel prete di Silence. Ma sembra che il silenzio orgoglioso dell’uomo abbia prevalso. Tra plausi e compiacimenti.

 

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