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DALLA PSICOSI ALLO PSICODRAMMA di Giorgio Tonelli-Giovanni Bagnaresi-Giovanni Roseo

Gli psicotici sono stati oggetto di numerosi tipi di intervento medico tendenti a modificare il loro comportamento, i loro contenuti ideativi, il loro modo di essere. Sappiamo come tutto questo non abbia condotto a risultati soddisfacenti eccezione fatta per l'azione sedativa e deliriolitica di alcuni psicofarmaci e della discutibile azione riequilibratrice dell'elettroshock in alcuni casi di psicosi acute.

La psicoanalisi ha scoperto, a proposito della nevrosi, l'impossibilità di un successo terapeutico medico. Questa acquisizione è derivata dalla scoperta della rimozione e della significatività dei sintomi nevrotici. Il rapporto analista-analizzante e tutta la dinamica della cura hanno definitivamente fatto decadere ogni velleità medica ponendo in primo piano gli effetti del transfert e delle interpreta-zioni. La domanda di cura e la strutturazione della situazione analitica sono riconosciuti, in maniera unanime, come i presupposti per la messa in moto del processo analitico. Lo psicotico è stato sempre meglio definito come colui che non è in grado di formulare una domanda (di cura) e di sopportare la situazione propria della tecnica 'analitica. Molti si sono anche chiesti se non fosse l'analista incapace di ascoltarne la domanda e di sopportare il rapporto con lo psicotico. Si sono così inventate altre tecniche per indagarne lo psichismo. Non ci sembra invece che ci sia preoccupati a sufficienza di individuare qual era la molla che spingeva lo psicoterapeuta ad occuparsi di psicotici. Del resto i vari tentativi di invenzione di nuove tecniche analitiche si muovevano nella direzione tradizionale di indagine sui meccanismi psicologici della psicosi.
Lo psicotico, come dice Lacan, manca di un significante fondamentale che lo istituisca come uomo significandogli la mancanza. Non è in grado di identificarsi e quindi di umanizzarsi. Prigioniero di una situazione immaginaria è preda del transitivismo tanto che non distingue tra sé e l'altro, tra attivo e passivo; ma questa posizione di indefinitezza può essere ciò che muove il desiderio del terapeuta. È come se si supponesse che il « pazzo » abbia il segreto per sfuggire ad ogni identificazione e quindi che gli si possa carpire la chiave per una « disalienazione » totale. È su questa linea che si muove l'antipsichiatria nella sua negazione della malattia mentale, negazione che con la psicosi ci si trovi di fronte ad una landa deserta, un nulla, situazione personale indicibile ed irrappresentabile insita nella « soggettività » del paziente: situazione utilizzata dall'antipsichiatria che se ne appropria per la componente immaginaria di questa indicibi-lità. Che cosa deriva da questo intervento apparentemente solidale col « pazzo »?
Niente di certo su un piano di una utilizzazione teorica che possa permettere una circolazione di elementi decifrabili sui quali ci si possa intendere. Questo non esclude la possibilità di interazioni tera-peutiche positive tra il singolo antipsichiatra e il singolo paziente.
L'antipsichiatra dunque, mentre dichiara di sposare la causa dello psicotico, si muove per una sua causa — e come potrebbe fare diversamente? — misconoscendola però o meglio identificandola con l'immagine riflessa dallo psicotico e che accetta in quanto occlusione della sua mancanza e negazione di ogni valenza che sia dell'ordine del desiderio proprio.
Al contrario si tratta di fare sì che rimanga aperta la propria beanza e che operi il proprio desiderio. Dunque nessuna verità particolare nel discorso dello psicotico, nessuna libertà di cui impossessarsi, ma soltanto una alterità radicale con cui confrontarsi lasciando spazio per eventuali effetti che la scoperta del personale non essere del terapeuta può provocare nello


psicotico. Il « pazzo » è dunque il supporto della verità di un sapere che emerge presso il terapeuta. Tale approccio si svolge fossanche solo per giungere alla conclusione che lo psicotico non è più motivo di interesse: il suo fascino si spegne nella misura in cui si articola e si svela il desiderio dell'analista. Rivelazione che ovviamente percorrerà la catena dei nessi significanti personali a tale riguardo. Cosa è che ci riguarda visto che abbiamo detto che lo psicotico non è un uomo? Un momento di angoscia, la più primordiale e la più vicina al biologico che si possa immaginare; forse il punto attraverso il quale entrambi sono passati. Il momento in cui lo psicotico ha preso la via delle identificazioni frammentarie ed avulse da un significante fondamentale, e successivamente ha costruito quello che altrove abbiamo definito uno pseudo Edipo, è lo stesso punto da cui l'uomo ha iniziato invece la sua « alienazione » attraverso la catena di identificazioni fino alla strutturazione edipica segnalata dalla castrazione simbolica. Il percorrere a ritroso ciascuno il proprio cammino, terapeuta e psicotico, sino a questo luogo, che potremmo chiamare il punto di angoscia simbiotica, è effetto della esistenza di questo momento storico e strutturale comune che si palesa in fondo in ciascuno di noi sotto la specie della paura della follia. Una particolare sensibilità a subire l'influenza di questa sorta di centro gravitazionale fornito dal punto di angoscia è ciò che più si avvicina al desiderio del terapeuta di psicotici. Gioco pericoloso ed affascinante quello in cui terapeuta e psicotico si cercano nel buio delle catene significanti per ritrovarsi in un momento di panico leggibile nello sguardo dell'altro. La paura del terapeuta rivela allo psicotico la beanza dell'altro. È un momento fecondo. Non si tratta tanto di rassicurarsi perché anche l'altro ha paura: come da parte del terapeuta non si tratta di partecipare simbioticamente e quindi in maniera rassicurante alla paura dello psicotico, negando così la malattia mentale, ma di analizzare il proprio desiderio, così per lo psicotico si tratta di articolare, partendo dal vuoto riconosciuto nell'altro, una espressione della soggettività che spezzi l'equivoco del transitivismo. Vale a dire è solo dopo aver localizzato la fonte e il luogo dell'angoscia (attraverso l'angoscia dell'altro) tra l'essere e il non essere, che potrà strutturarsi un effetto di soggettività che dia un senso univoco alle azioni per cui le proprie operazioni mentali possono acquistare il vissuto soggettivo di appartenenza. I pensieri non saranno più voci udite, gli oggetti saranno visti e non guarderanno, i persecutori saranno gli oggetti delle proprie pulsioni. Allora anche lo psicotico potrà permettersi il gioco del bambino che invita il lupo a venire fuori dato che quest'ultimo non sarà più uno sconosciuto: l'angoscia non è più vissuta come panica ma si lega ad una rappresentazione connessa all'angoscia dell'altro.
Quanto appena detto ci mette ora sulla traccia di un altro risvolto del desiderio del terapeuta e specificatamente dello psico-drammatista di psicotici. Poco sopra abbiamo delineato infatti un fantasma. Fantasma indubbiamente originario. È una evocazione di una scena in cui dal grigio e dal caos emergono tonalità e contorni. Si costruisce uno scenario in cui il soggetto (dello psicodrammatista) tenta di unificare in una immagine lo spezzettamento che lo riguarda. Da ciò l'esperienza, che crediamo condivisa da tutti coloro che praticano lo psicodramma con psicotici, di soddisfazione e di giubilo che si prova quando l'eterogeneo e caotico comportamento degli psicotici nel gruppo si coagula intorno ad una scena e quando qualcuno esprime delle chiare risposte.
Come non richiamarsi al giubilo del bambino davanti allo specchio?
Illusione di un completamento immaginario, di una simmetria speculare, di una perfezione che si autoconvalida: in una parola un ordine narcisistico impossibile da sostenere. Richiamo di una nostalgia di abbandonare l'oggetto rappresentato dallo psicotico per lasciarsi andare alla deriva come atomo narcisistico, penosa accetta-zione di esporsi allo sguardo e all'orecchio dell'interlocutore che, con il suo desiderio, spezzerà questa prigione mortifera rimettendone una parte.

SUMMARY


From psychosis to psychodrama
The Authors discuss the ideological attitude of « antipsychiatry » because of its renunciation of a psychotherapeutic approach to psychotics. They support Lacan's theories, according to which the psychotic patient hasn't got a basic « signifier » which can point out to him his « manque » (lit. lack) — « manque » being for Lacan an essential ingredient in identification —.
Psychodramatic play can bring about an encounter between therapist and psychotic.

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