Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento del sito stesso.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie.

   

LA STRUTTURA DELLA PERSONA IN PIRANDELLO E LA PSICANALISI di Cesare Musatti

Io sono dunque uno psicologo, divenuto poi anche psicoanalista, formatosi nel periodo fra le due guerre. In quell'epoca, sul piano culturale, ed in ispecie in campo teatrale, l'opera artistica di Luigi Pirandello, si presentava con un forte spicco sullo sfondo della piuttosto piatta cultura italiana. E anch'io, come molti altri, ne rimasi affascinato.

Ma non affascinato  soltanto,  come  può  accadere di fronte  a qualsiasi  opera  d'arte;   anche  turbato  per le  connessioni  che  non potevano sfuggirmi con quella che era la mia attività professionale e scientifica. Non potevo infatti non avvertire una certa parentela fra il modo come Pirandello presentava i suoi personaggi, e quegli argomenti specifici che io nel mio lavoro, soprattutto come psicoanalista, andavo trovando o cercando.
Volendo semplificare, posso dire che mentre leggevo o assistevo ai drammi di Pirandello, mi pareva di respirare aria di psicoanalisi.
Sappiamo con certezza che non vi fu in Pirandello alcuna derivazione e neppure ispirazione, tratta da opere scientifiche di psicoanalisi. Può anche darsi che fra il '20 e il '30, egli, come tanti altri uomini di cultura, abbia avuto notizia di qualche scritto di Freud, ma il modo di pensare e di vedere gli uomini e le cose, era già formato in lui da tempo. Qualcuno è andato in cerca di precise coincidenze; ma come in altri casi simili, si è trattato di considerazioni generiche e di osservazioni vaghe.
La stessa cosa, come si sa, accadde per Svevo. Questi indusse in errore qualcuno, appiccicando sulla prima pagina della Coscienza di Zeno, la dichiarazione che si trattava di uno scritto autobiografico, preparato da un paziente per il proprio analista. Lo stesso Svevo, ad un certo momento, si illuse, e anche disse, di aver composto un romanzo psicoanalitico, finché però, nelle Lettere londinesi, che sono fra gli ultimi suoi scritti, rettificò le precedenti dichiarazioni, con una vera e propria ritrattazione.
Svevo però, come ha recentemente descritto nella sua accurata biografia di Svevo il Prof. Enrico Ghidetti, apparteneva comunque a quel mondo triestino italoasburgico dove le idee di Freud erano circolate dai primi anni del secolo, così che il sospetto di una qualche influenza poteva anche essere lecito.
Nulla di tutto questo per Pirandello.
E il nostro caro amico, Michel David, studioso e profondo conoscitore della letteratura italiana del '900, e insieme persona dotata di una buona preparazione psicoanalitica, quando una quindicina di anni fa scrisse una accuratissima opera sulla psicoanalisi nella cultura italiana non riuscì a trovare alcun canale di informazione che conducesse dal pensiero di Freud all'opera artistica di Pirandello.
Donde deriva allora quella sensazione che di fronte a Pirandello il lettore, o lo spettatore (specialmente se sono, come è accaduto a me, dentro fino al collo in una attività psicoanalitica) provano, di una atmosfera familiare, di un modo di sentire già noto, perché corrispondente a quello che noi analisti, nel nostro lavoro, andiamo esplorando nei pazienti?
Può darsi che le vicende familiari di Pirandello lo abbiano messo a contatto con una forma di pensiero, inabituale per l'uomo comune: un pensiero estraneo alla logica delle normali comunicazioni interpersonali: quello che accomuna la libera fantasticheria e il delirio paranoicale. Ma per lo più, se a qualcuno di noi capita di vivere transitoriamente un tale anomalo modo di pensare, si risveglia tosto il richiamo alla razionalità, al pensiero ordinario, comune, quello con cui parliamo fra noi ogni giorno, ed anch'io ora


parlo con voi. E ripetiamo a noi stessi le medesime parole che sempre vengono dette ai bambini: « Sii ragionevole, non dire sciocchezze ».
D'altronde anche questo richiamo ad eventuali esperienze personali e familiari di Pirandello non spiegherebbe un gran che. C'è indubbiamente qualche cosa di più essenziale.
Donde deriva allora la tentazione (più di una tentazione non è) di pensare alla psicoanalisi a proposito di Pirandello?
O anche viceversa: di pensare a Pirandello a proposito della psicoanalisi?
Consentitemi, in questo ambito di idee, di raccontarvi un episodio che ricordo sempre con piacere.
Pochi anni dopo la fine dell'ultima guerra, sono stato invitato a tenere a Roma, al Teatro Eliseo, una conferenza sulla psicoanalisi. Si trattava allora per il nostro paese, che si trovava in grande ritardo, quasi di una novità, la quale attraeva quel pubblico che desidera presentarsi come amante della cultura.
Tenni la mia conferenza; ma quando mi ritirai dietro il sipario fuori dal quale avevo parlato, fui bloccato dal Capo macchinista del teatro, che era lì sul posto a far la guardia a tutto il materiale di palcoscenico appartenente alla sua giurisdizione.
Aveva ascoltato il mio discorso, e mi affrontò quasi abbracciandomi, ed esclamando: « È Pirandello! È Pirandello! ». Allora mi raccontò di essere stato in dimestichezza con il Maestro, e di aver allestito lui personalmente le scene di molti suoi spettacoli, assistendo sempre alle prime, quando erano date in quello stesso Teatro Eliseo.
Il pensiero di Pirandello riteneva di averlo assimilato, ed ora, a parer suo, gli sembrava di averlo sentito ripetere da me: in forma astratta e col tono dottrinale del Professore che tiene una conferenza, ma per lui identico. E mi ripeteva in romanesco:   « Perché me creda, Professore mio, noi non semo uno solo! ». Cioè ciascuno di noi non è una persona sola.
Questa frase mi parve bella, ed io gli promisi che una volta o l'altra in un mio qualche discorso, avrei citato questa espressione del macchinista del Teatro Eliseo, innamorato di Pirandello.
Assolvo dunque anche di fronte a voi la promessa fatta allora.
Ma quella frase è proprio di Pirandello. La dice nei Sei personaggi, il Padre, poco prima dell'Intervallo:
« II dramma per me è tutto qui, signore: nella coscienza che ho, che ciascuno di noi — veda — si crede "uno", ma non è vero: è "tanti", signore, "tanti", secondo tutte le possibilità d'essere che sono in noi: "uno" con questo, "uno" con quello — diversissimi! E con l'illusione, intanto, d'essere "uno per tutti", e sempre "questo uno" che ci crediamo, in ogni nostro atto ».
Qualcuno potrebbe dire: Ma tutto questo si sa, si è sempre saputo. Ognuno di noi quando deve parlare o trattare con altre persone, si adegua alla situazione, e assume atteggiamenti differenti. Ma rimane dentro di sé, se stesso, e quelli che mutano sono gli atteggiamenti assunti: i quali sono come vestiti che si possono cambiare, oppure come i personaggi differenti che l'attore — pur rimanendo sempre il medesimo individuo — di volta in volta impersona.


È la risposta della psicologia tradizionale, la quale alla identità personale non può, e non vuole, rinunciare.
Ma per Pirandello non è affatto così.
Egli mette veramente in crisi la identità personale.
Forse proprio qui esiste l'aggancio, o forse più che aggancio l'analogia, che ci pare di afferrare fra il modo di intendere la personalità umana in Pirandello, e le tendenze della psicologia moderna: quella psicologia moderna che più o meno fa capo alla psicoanalisi.
Non si tratta di analogie positive, nel senso di una identità di affermazioni; ma negative: nel senso dello svuotamento di un sistema concettuale consolidato, tradizionale, entrato anche nella coscienza comune, e assunto a base del nostro modo di vita sociale, il quale comprende gli stessi fondamenti giuridici della giustizia penale.
Partiamo dal presupposto, quando trattiamo con qualcuno, che egli sia lo stesso con cui abbiamo parlato ieri, e che abbiamo amato od odiato ieri. E il tribunale che condanna per un dato reato, tratta colui che è nella gabbia degli imputati come se fosse lo stesso che ha commesso il reato. Mentre lo stesso non è più, e la giustizia penale commette quindi, a rigore, costantemente errori di persona: gettando in galera un altro, e lasciandosi sfuggire il colpevole, che non può più essere acchiappato, perché semplicemente è sparito, non c'è più.
Qualcuno di voi ricorderà forse un orrendo delitto avvenuto a Milano più di trent'anni fa, quello che fu chiamato il delitto di Via San Gregorio. Una donna, Caterina Fort, trucidò la moglie dell'uomo con cui essa aveva una relazione, e insieme uccise i figlioletti dei due coniugi. Fece questo durante uno scoppio di ira e gelosia, ed effettuò la strage in modo feroce, con una sbarra di ferro, con cui fracassò il cranio alle vittime. Fu condannata all'ergastolo, e soltanto dopo trent'anni di carcere è stata graziata.
Io ebbi, subito dopo il processo, un lungo colloquio col suo avvocato: il quale mi chiedeva spiegazioni su un fatto strano. La Fort, già in ergastolo, con sentenza divenuta definitiva, dice all'avvocato, che lei aveva sì ammazzato l'altra donna, ma che non aveva assolutamente toccato i bambini.
Poiché l'accertamento dei fatti non lasciava alcun dubbio, e d'altra parte la donna (persona di una notevole levatura morale, anche se colpevole di questo terribile plurimo delitto) non aveva più alcun interesse a modificare la versione dei fatti, si deve ritenere, che per la sua personalità, quale era dopo la condanna, la uccisione dei bambini (a differenza di quella della rivale) fosse qualche cosa di assolutamente incompatibile e insopportabile; che essa perciò rifiutava, riuscendo a cancellarla dal proprio animo. Si sentiva dunque ora — ed era effettivamente sul piano psicologico — del tutto estranea alla strage, per quanto riguardava i bambini.
Non ho certo intenzione di proporre una riforma del diritto penale su queste basi; né saprei come riforme del genere potrebbero attuarsi. Ma non possiamo disconoscere che la giustizia, così com'è e come funziona — ma non soltanto la giustizia, pure ogni


nostra comune relazione con gli altri — si fonda sull'errato presupposto di una identità personale come tale immutabile, anche se oggi questo non è più sostenibile.
Il problema della identità personale ha occupato la mente e la fantasia di Pirandello sotto forme molteplici. Proprio la continua trasformazione della persona rende il quesito del riconoscimento della identità sempre problematico.
Su questo motivo si fonda Come tu mi vuoi, composto cinquant'anni fa e in qualche modo indirettamente ispirato da una vicenda che aveva appassionato e diviso in quel tempo l'Italia intera in opposte fazioni: la vicenda Bruneri-Cannella, che ormai soltanto le persone molto anziane ricordano.
Allora ebbi occasione di collaborare col Prof. Francesco Carnelutti, giurista insigne, avvocato della famiglia Cannella. Egli aveva il compito di sostenere in sede giudiziaria la tesi che lo smemorato di Collegno (come veniva chiamata la persona di cui gli uni volevano fosse il vicentino Prof. Cannella uomo di una alta cultura come docente di filosofia ed educato in una famiglia benestante di mentalità tradizionalista e gli altri il tipografo torinese Bruneri individuo alquanto ambiguo, colpevole di vari furterelli) fosse di fatto Cannella.
Carnelutti, molto dubbioso anch'egli sulla identità del proprio cliente, ebbe a confidarmi che se anche l'individuo non era il professore, ma il tipografo, egli si identificava così bene con la personalità dell'altro, da meritare la promozione a Prof. Cannella.
Anche Carnelutti dunque, in queste conversazioni confidenziali, non escludeva che, sul piano psicologico potesse esserci una incertezza ed uno scambio di personalità.
Con mano leggera, Pirandello riprodusse, in Come tu mi vuoi, il dramma del dubbio sulla identità di una persona, rimasta anche essa sperduta durante la guerra del '15-'18. Ma ne fece un personaggio femminile, interpretato da Marta Abba: che invece di lottare per una identità posticcia, rifiuta la personalità che le si vuoi affibbiare e rientra nell'anonimo ambiente caotico da cui l'avevano tratta fuori, per affibbiarle una personalità d'accatto.
Se la concezione dell'identità psicologica personale risale in definitiva ad Aristotele e ad ogni successiva idea di un'anima, sostanza semplice, stabile, supporto e sostegno di tutta intera la nostra vita, dove le contraddizioni sono dovute a fattori esteriori, i quali in realtà non intaccano la essenza della persona, dobbiamo dire che in Pirandello c'è la intuizione che le basi stesse della psicologia tradizionale debbano essere abbandonate.
Ma allora è ben questo che ci fa sentire una parentela fra Pirandello e ciò che genericamente possiamo indicare come una nuova psicologia.
Dicevamo prima che il pensiero comune, il pensiero corrente, risolve la contraddizione fra l'individuo che rimane identico a se stesso e i molteplici modi che egli assume di fronte alle mutate circostanze, o i differenti interlocutori, con un artificio: il quale distingue una realtà stabile da una molteplice e variabile apparenza.


Ma questo ci porta ad un'altra tematica fondamentale per Pirandello, e che ancora lo avvicina a determinati punti di vista della moderna psicologia del profondo: il problema della verità storica.
Già nel 1917 in Così è (se vi pare) sono presentate due verità contrapposte che si escludono l'una l'altra. Il tono è umoristico, anche se la materia è tragica. Certo la gente di fronte alla quale le due verità soggettive sono prospettate, l'ambiente di provincia pettegolo e curioso che fa da sfondo al dramma, vuole una verità, che sia una sola ed unica verità. Ma Pirandello non accontenta la curiosità di quella gente, e neppure quella del pubblico, lasciando invece che permangano due verità opposte e distinte: le quali possono coesistere, soltanto perché sono verità soggettive, o modi personali di vivere le cose.
Questa contrapposizione alla verità storica di un'altra verità soggettiva, psicologica, per cui nella Favola del figlio cambiato (che riecheggia La vida es sueno di Calderon de la Barca) il principe dice: « Niente è vero — e vero può esser tutto — Basta crederlo per un momento — e poi non più, e poi di nuovo — e poi sempre; o per sempre mai più » : questa contrapposizione dunque è quella con cui hanno a che fare ogni giorno, gli psicoanalisti con i loro pazienti.
Direi che l'analista continuamente entra ed esce dalla verità soggettiva del paziente: è con lui solidale e partecipe nelle sue fantasie, nei suoi sogni, nei suoi deliri; ma se ne sa insieme ad ogni momento ritrarre.
Ciò che caratterizza il pensiero psicologico di Pirandello non è soltanto un atteggiamento negativo rispetto alla verità comune, alla verità accettata, all'imperativo della realtà e della ragione, ma anche un atteggiamento positivo direi, e costruttivo verso la fantasia.
Non soltanto la fantasia può sostituirsi alla realtà, ponendola in crisi e annullandola; ma la fantasia stessa non è qualche cosa di anemico, non è disordine ed arbitrio. Esiste cioè una verità, una logica ed una legge anche per la fantasia.
Quando Pirandello affronta questo problema, si sente in lui più che mai lo scrittore, e forse sopra tutto il commediografo: che crea sì i propri personaggi, ma che dopo averli dotati di una propria vita, cessa di avere pienezza di potere sopra di loro. Vivono ormai di vita propria, e lo scrittore stesso deve obbedire alla logica di cui li ha dotati.
Così Pirandello stesso dice in Questa sera si recita a soggetto:
II primo attore: « La vita che nasce non la comanda nessuno ». L'attrice caratterista: « Le deve obbedire lo stesso scrittore ». La prima attrice: « Ecco, obbedire, obbedire ».
E nella prima scena della stessa commedia, il Dott. Hinkfuss, che dirige lo spettacolo, dopo aver espresso una sorta di sgomento per l'opera d'arte che rimane fissata per l'eternità, restando così privata di vita, cosa ormai morta, afferma:
« Ogni scultore (io non so, ma suppongo) dopo aver creato una statua, se veramente crede di averle dato vita per sempre, deve desiderare ch'essa, come una cosa viva, debba potersi sciogliere dal suo atteggiamento, e muoversi, e parlare. Finirebbe d'essere statua; diventerebbe persona viva ».
Vero è che l'opera d'arte, pittorica o scultorea, non rimane mai cosa morta; riacquista la vita che di volta in volta le da colui che la contempla.


E mi si presenta ora alla mente ciò che Freud, il quale del Mosè di Michelangiolo era un ammirato contemplatore (durante un soggiorno di due settimane a Roma, salì quotidianamente a S. Pietro in Vincoli, per riguardarselo), dice descrivendo la statua:
« All'inizio, quando la figura sedeva tranquilla, essa reggeva le tavole ritte sotto il braccio destro... Poi venne il momento in cui la pace fu scossa dal tumulto. Mosè volse il capo in quella direzione, e quando ebbe osservato la scena, il piede si preparò al balzo, ecc. ».
L'interpretazione di Freud non fu accolta con favore dai critici d'arte, ma... per Freud, il Mosè di Michelangiolo si muove, e, come dice Pirandello, si fa persona viva.
Certamente anche Pirandello qualche volta si contraddice. Ad esempio, per quanto riguarda la verità del personaggio creato dall'arte (che è questione evidentemente assillante per lui), mentre in Questa sera si recita a soggetto afferma, come ora abbiamo veduto, che le creature costruite dall'arte hanno vita propria, nei Sei personaggi afferma tutto l'opposto. E al capocomico il Padre dice: « La sua realtà può cangiare dall'oggi al domani »; e alla risposta di questi: « Ma si sa che può cangiare, sfido! Cangia continuamente come quella di tutti », lo stesso Padre insorge, e grida indignato: « Ma la nostra no, signore. Vede? La differenza è questa! Non cangia, non può cangiare, né essere altra, mai, perché già fissata — così — "questa" — per sempre (è terribile, signore!) realtà immutabile, che dovrebbe dar loro un brivido nell'accostarsi a noi! ».
Una contraddizione? Si, una contraddizione, che coglie l'aspetto drammatico della creazione artistica. O forse della creazione senza altro, di qualunque tipo essa sia. Anche di quella dei propri figli: i quali se ne vanno autonomi per la propria strada, ma recano in sé una immutabile impronta: liberi e condizionati (e cioè fissati per sempre) insieme.
Il problema della contraddizione sembra non esistere in Pirandello, o appare superabile. Come non vi è mai la demarcazione netta fra il vero e il falso.
In Come tu mi vuoi, la Ignota esclama: « Consolati, nessuno veramente mentisce del tutto. Perché ogni menzogna costruita è costruita in base ad un granello di verità, che da l'avvio alla menzogna ».
Ma qui sembra proprio di sentir parlare uno psicoanalista: il quale non si preoccupa del fatto che le comunicazioni del proprio paziente siano menzognere, perché anche in tal modo sono rivelazioni, per chi abbia fiuto, di una sottostante verità, generatrice della stessa menzogna.
Allo stesso modo, ancora nel Come tu mi vuoi, è assegnata alla ragione il compito di rinserrare la realtà, che è viva, cangiante e variabile, entro i suoi schemi rigidi, quando l'Ignota esclama: « Guai se non ci fosse la ragione a far da camicia di forza! »
Tutto il problema delle razionalizzazioni, che alterano il contenuto della vita interiore, di per sé evanescente e contraddittoria, e con cui gli psicoterapeuti hanno costantemente a che fare, sembra essere decisamente espresso da queste poche parole, che della ragione fanno la ferrea gabbia che trattiene e rinserra il mobile contenuto del pensiero libero.


Il pensiero libero, il pensiero libero! Pure questa è una nozione che ritroviamo nella formazione della psicologia dinamica moderna. Il pensiero libero, che negli Studi sull'isteria del 1895, da quel Joseph Breuer che fu il primo ispiratore di Freud, fu indicato come il pensiero slegato, costituito dai processi primari: contrapposti a quei processi secondari che caratterizzano l'attività mentale cosciente e razionale.
Il sogno, la fantasticheria, il delirio, che affiorano a livello cosciente in determinati momenti della vita; ma i quali sono l'espressione del substrato originario e permanente della attività del nostro pensiero, che è di per sé inconscio.
Almeno per l'adulto, perché i due piani — quello della realtà reale e quello della realtà fantasticata — nei bambini invece si intrecciano, così come fin dal 1922 aveva detto Pirandello nell'Enrico IV.
I bambini, ma anche i folli: lo afferma, sempre nell'Enrico IV, il Dottore, lo psichiatra, l'alienista (lo psicoanalista potremmo aggiungere noi), uno di quelli insomma, che come afferma Pirandello, cascano sempre in piedi, perché per ogni follia hanno una loro spiegazione.
Anche nella follia, la realtà reale non è tutta abrogata dalla pura invenzione: ma insieme coabitano finzione e realtà.
Mi sembra proprio che tre situazioni, analoghe nella loro ambiguità, siano state sviluppate da Pirandello, per delineare la struttura della persona umana.
Per prima la situazione dei bambini dunque, che, come dice Cotrone nei Giganti della montagna, hanno « la divina prerogativa di prendere sul serio i loro giochi ». Ma Cotrone sul finire del III0 Atto, l'ultimo scritto da Pirandello, esclama pure: « Se siamo stati una volta bambini, possiamo esserlo sempre! »
Ma anche coloro che consideriamo in preda alla follia insieme recitano, anche se poi rimangono prigionieri della loro finzione: la quale quindi per essi si fa realtà. Ci sono psichiatri moderni, i quali giudicano la follia, o per lo meno determinate manifestazioni nevrotiche o psicotiche, recite, commedie, giochi: che si contrappongono ad una realtà, la quale non è del tutto perduta.
E chi, ad esempio, si è esercitato nell'uso dell'ipnosi (che da luogo a fenomeni simili a quelli della sintomatologia psiconevrotica) sa bene che talora è impossibile distinguere una simulazione dalla realtà: perché quella che si produce è una simulazione sì, ma una simulazione coatta, a cui il soggetto non può sottrarsi.
Se quella della follia è la seconda situazione usata da Pirandello per tracciare la struttura della persona umana, la terza è la situazione teatrale.
Neppure l'attore, l'attore vero, l'attore del palcoscenico, ha la possibilità di sottrarsi completamente al personaggio che impersona.
Nei Giganti della montagna tutto questo problema della verità e della finzione teatrale è ripreso con quella finezza e quella arguzia che erano proprie di Pirandello, e che gli consentivano di giocare, continuamente destreggiandosi, con il perpetuo scambio fra realtà e finzione scenica.


Per dire che cosa?
Per dissacrare determinati principi che gli uomini per secoli, ma ancora oggi naturalmente con una parte di se stessi, hanno considerato costitutivi della interiore struttura della umana persona e dei suoi rapporti con la realtà esterna.
Ecco perché non è necessario che Pirandello abbia letto le opere di Freud e degli altri analisti, o che Freud abbia assistito a qualche rappresentazione di Pirandello. Eventi che neppure si possono escludere con certezza, ma che sono privi di qualsiasi importanza, per i parallelismi possibili.
Parallelismi. Ho detto prima che non si tratta di analogie positive fra la concezione della persona, propria di Pirandello, e gli indirizzi della psicologia del profondo. Ma di analogie negative. Si tratta dunque del rifiutare la persona, come sostanza metafisica.
La psicologia di Pirandello non è ovviamente la psicologia dell'una o dell'altra scuola analitica. Ma qualche cosa che — su basi artistiche, genialmente intuitive, talora anche per il gusto del paradosso — Pirandello si è guardato bene dallo sviluppare in forma sistematica facendone una dottrina, ma ha semplicemente usato per il nostro (e il suo) piacere, e per la fantasia di ognuno.
Ed ecco ora un mio atto di contrizione.
Io sono soltanto un professore di psicologia, come ho detto, che ha fatto certi studi e segue determinate concezioni teoriche.
Mi ero messo in niente di estrarre dall'opera di Pirandello i lineamenti di una trattazione psicologica.
Idea senz'altro fantasiosa: non perché non sia in astratto possibile ricavare da tutte le osservazioni, gli esempi e le immagini che Pirandello ci offre, qualche cosa di sistematico: simile a quelle più o meno pesanti opere teoriche che gli scienziati miei colleghi, ed io stesso, scriviamo per il gusto e la ambizione di mettere per così dire ordine nelle cose dell'universo.
Ma perché — indipendentemente dalla questione della utilità — per far questo mi sarebbe stato necessario rivedere nei particolari tutta la produzione di Pirandello, e restarvi immerso parecchio tempo. Ciò che evidentemente non era nelle mie possibilità.
Così ho ripiegato su queste brevi considerazioni, che voi avete avuto la bontà di seguire.
Però, tutto sommato, direi che è una bella fortuna che le cose siano andate a questo modo. E che io mi sia deciso a riconoscere che la mia era una pretesa eccessiva, frutto di una certa presunzione; così che mi sono accontentato di accennare a qualche testimonianza significativa, tratta dall'opera di Pirandello, per mettere in evidenza la modernità del suo modo di vedere e sentire la vita degli uomini: rinunciando a degradare in una esposizione aridamente teorica, ciò che di vivo e fascinoso vi è nella sua opera creativa.

SUMMARY

The theory of personality in Pirandello's plays
The A., the Doyen of Italian psychoanalysis, recalls and comments on his encounter with Luigi Pirandello's theatrical works. The A. maintains that in Pirandello's work there are traces of a conception of personality similar to that of psychoanalytic theory. There is a common refutation of the conception of the ego as metaphysical substance and of the Aristotelian System. Parallels are drawn between the drama Come tu mi vuoi (Lit. As You Like Me) and the Bruneri-Cannella affair in the 20's, when the real identity of an imposter was argued about for years.
Further analogies between Freud and Pirandello emerge from the way they contrast historical and subjective truth.
Other subjects discussed are the relationship between reason and free thought and the constructive function of fantasy.
Finally the A. discusses the three situations in which Pirandello outlines personality: childhood, madness and theatre.

Sky Bet by bettingy.com
primo small secondo small terzo small quarto small quinto small sesto small settimo small settimo small