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NINA E LA SUA MUSICA CORPOREA di Carlo Insolia

Sono un musicista e compositore ma questa nota si riferisce a un caso clinico affrontato a scuola nel ruolo di musicoterapeuta, attraverso una nuova elaborazione di riferimenti teorici, tra cui il saggio di J. L. Moreno sulla psicomusica contenuto nel primo volume di Psychodrama (1947).
La protagonista del caso è Nina, un’allieva di sedici anni, affetta da disturbo generalizzato dello sviluppo, con ritardo mentale medio grave. Nina è inserita nella classe terza. Dalla valutazione psicologica e pedagogica si evince a livello comportamentale una certa passività ed una carente capacità comunicativa. Si osserva infatti la tendenza a sussurrare solo alcune parole che a volte risultano ecolaliche. La mimica facciale rimane poco modulata agli stati d’animo e alle situazioni. In ambito cognitivo le competenze osservate sono riferibili ad un ritardo di grado medio grave. Così e con altre poche righe contenute nella cartella clinica consegnata alla scuola è descritta Nina.
Ho provato a guardarla con gli occhi della musica e  vedevo il tempo di Nina scorrere come musica di Ligeti  ove il suono che si dichiara non individuato  può non essere, e per non esserci mai stato, il prodotto sonoro sempre sfugge senza risiedere in alcun luogo e così  il tempo di Nina  era determinato a ricaderle addosso e per questo ibernandola nella artificialità del silenzio. Capivo la necessità di inserirmi nel suo tempo ed ascoltare la sua musica corporea interiore e restituirgliela arricchita dall’eco della mia presenza.
Su proposta del consiglio di classe il collegio dei docenti mi affidava un progetto di musicoterapia di quaranta ore, da svolgere durante l’a.s.2005/2006 e 2006/2007.

Nina entrava nel laboratorio di musica accompagnata dall’insegnante di sostegno e si predisponeva nella stanza con lo sguardo in opposizione al mio e così restava in attesa di un accadimento.
Il primo accadimento era la mia voce che la salutava con tenerezza e subito la invitavo a prendere tre tamburi ed un piatto che con il suo aiuto predisponevo al centro della stanza e le porgevo due bacchette rosse.
Di fronte a lei posizionavo il mio piano elettrico ed  eseguivo una canzone allegra e briosa in tempo binario che  è diventata la nostra sigla di inizio e chiusura di ogni sessione di lavoro. 
Lei accompagnava la musica suonando la pulsazione con  battito regolare e continuo su un solo tamburo muovendo la mano, il polso, il braccio, tutto il corpo suonava vibrando in un solo movimento e da subito mostrava di gradire molto questa nuova situazione e con fare furtivo , sperando forse di non essere vista, cercava di incontrare i miei occhi e se condivisa accennava un sorriso che dissolveva rapidamente.
Guardandola alla fine della sigla compresi che la musica fatta da lei e per lei la emozionava a tal punto che i tratti della fronte e l’espressione degli occhi spesso nascosti sotto folti ricci neri che per ore, giorni, anni, come per tenere stretto un segreto  sfuggendo lo sguardo degli altri aveva mantenuto rigidi e corrugati, si erano distesi e la predisponevano all’incontro con il mondo.
Io spesso mi sono chiesto come lei cogliesse il mondo visto la grande fragilità del suo pensiero astratto e categoriale ma era affascinante osservare come la più astratta delle arti “la musica” avesse preso per lei il posto dell’immagine .Invece di un’immagine corporea aveva una musica corporea che la predisponeva alla relazione con se stessa e gli altri.
Il graduale progredire nelle attività del laboratorio di musicoterapia ha permesso  alla fine del progetto che Nina accompagnasse la sigla suonando tutti i tamburi con diverse sequenze ritmiche, cercando spesso l’incontro dei suoi occhi con i miei e compiacendosi della relazione stabilita regalando sorrisi e ammiccamenti.
Il lavoro da programmare quindi mi fu chiaro dopo  quel primo incontro.
Dopo la sigla mi avvicinavo a lei e disponendomi sempre di fronte e al centro della stanza suonavo il tamburo o i tamburi insieme a lei partendo dalla pulsazione ripetitiva che mi proponeva, accettandola come una linea invisibile di demarcazione del suo mondo interiore, oltre quella linea nulla poteva esistere ma molto poteva essere costruito. La pulsazione ripetitiva, la postura statica lo sguardo fisso rubato al mondo non potevano né essere cambiate né tanto meno interpretate ma solo ascoltate.
A questo punto della sessione di lavoro inserivo sempre dopo che lei aveva catturato il mio sguardo, quello era il segnale della apertura della comunicazione, una piccola modificazione nella sequenza ritmica e la ripetevo fino a quando lei non modificava la sua ed accettava la mia e così continuavamo per alcuni minuti condividendo un crescendo di variazioni sino a formare una sola musica  dove il punto di domanda si perdeva nel punto di risposta e la sua linea interiore si espandeva ad accogliere il nuovo.
Il lavoro continuava con alcuni minuti dedicati alla respirazione che era sempre accompagnata da alcuni movimenti del corpo e da alcuni suoni della voce perché il paradigma del nostro incontro rimaneva sempre uguale “il tempo come metafora di abitare il mondo”. Volevo regalarle la percezione che tutto ciò che scorre , tutto ciò che si muove, rende udibile il tempo che passa e permette di vivere nuove rappresentazione del mondo.
Passavo quindi ai giochi di relazione fra suoni e movimenti del corpo, fintanto che la musica veniva percepita era in grado di muoversi e agire ma si bloccava se il pianoforte taceva ecco perché ho parlato di musica corporea, la musica muoveva ciò che la coscienza silente rendeva statico e non udibile.
Successivamente abbiamo lavorato molto sul riconoscimento melodico della musica, infatti abbinando ad ogni melodia una strumento differente le chiedevo di accompagnare la musica che suonavo al pianoforte.
E’ riuscita a memorizzare anche venti melodie suonando sempre lo strumento giusto e alla fine del progetto commetteva solo uno o due errori.
Utilizzando il canovaccio di questo gioco abbiamo lavorato sulla relazione sillabe strumenti e parole strumenti. Sia le singole sillabe che le parole erano da lei  sempre sussurrate,ma  arrivava così a pronunciare intere piccole frasi.
Incoraggiato dal fatto che Nina lavorava  con entusiasmo sempre crescente e dal fatto che la pulsazione era sempre meno ripetitiva e che la produzione musicale agli strumenti mostrava già qualche margine di autonomia ho cominciato a lavorare sul concetto di numero associato ai suoni verso la fine degli incontri relativi all’anno scolastico 2007.
Dopo qualche incontro riusciva perfettamente ad avere il concetto di numero sia come quantità sia come sequenza progressiva di cose, anche se limitato alla decina.
La percezione della musica interna aveva reso possibile rappresentare in modo udibile, visivo, corporeo un io che fino ad ora aveva ascoltato l’eco dei suoi silenzi .
Un primo piccolo passo verso la creazione  di un se che  vedeva, ascoltava,  percepiva la sua musica corporea interna forse era stata fatta, cominciava così verso la fine dell’anno scolastico a rispondere a semplici domande e con nostra grande sorpresa sempre con un filo di voce rispondeva mettendo insieme due parole:”porta chiusa ,libro aperto, bacchetta rossa…”
Io non so se nei prossimi anni Nina continuerà con la musicoterapia o la scuola penserà per lei altre attività ma so che la musica prestata al suo silenzio le ha permesso per alcune ore di ascoltare tracce della sua e della mia vita.

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