Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento del sito stesso.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all’uso dei cookie.

   

I QUAQUARAQUA' E IL SESSANTOTTO IN SICILIA di Francesco Merlo

 

Prefazione a 'Il giorno della civetta' di Leonardo Sciascia 
Collana I Grandi Romanzi n.1, edizione speciale in abbinamento al Corriere della Sera, RCS, Milano, 2002.

 

Da questo libro sono nate tutte le antimafie, e in questo libro c'è, persino, appena intuita in una pagina di rara malinconia, la loro degenerazione, come se il capitano Bellodi già sapesse di potere, un giorno, diventare un «professionista dell’antimafia». Invenzione letteraria del 1961, paradigma dell’eroe antimafia, investigatore modernissimo che rovista le banche, segue i flussi finanziari, decifra gli appalti, ma pensa con i versi di Attilio Bertolucci e ha letto Quasimodo, il protagonista del Giorno della civetta è un modello di coraggio e di umanità che anticipa gli eroi italiani in carne e ossa, e finisce con il somigliare davvero a tutti gli uomini che di lui si sono nutriti e ancora di lui si nutriranno, al punto che il mondo reale e il mondo del romanzo non si distinguono più, e si sa che è quest'altra vita la vera vita di un libro, quando diventa parte indistruttibile della memoria umana, e continua a crescere e a ramificarsi nella coscienza dei suoi lettori che gli diventano intimi, sino a confondersi.

Sciascia modellò il capitano Bellodi sulla figura reale di un suo amico, Renato Candida, ufficiale e scrittore, che aveva il coraggio fisico e l'onestà del galantuomo e incarnava, ai suoi occhi, il fiero e oscuro campione di un mestiere amaro e difficile, «il mestiere di servire la legge della Repubblica, e di farla rispettare». Ma il capitano Bellodi somiglia anche, e persino di più, agli eroi futuri che con lui sarebbero identificati, in un gioco di specchi che si moltiplicano in altri specchi, di letteratura che si fa vita e di vita che si fa letteratura. Bellodi è settentrionale come il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che effettivamente iniziò la sua carriera in un paesino di mafia di quella Sicilia dove poi ritornò, come prefetto di Palermo, e dove fu ucciso il 3 settembre del 1982. Del generale Dalla Chiesa, Bellodi ha il carisma e la volontà; e di Bellodi, Dalla Chiesa aveva l’intransigenza e la gentilezza. Bellodi-Dalla Chiesa è «un uomo […] che l’autorità di cui era investito considerava come il chirurgo considera il bisturi: uno strumento da usare con precauzione, con precisione, con sicurezza; che riteneva la legge scaturita dall’idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge muovesse». Sicuramente Bellodi è già Giovanni Falcone, sereno e lucido, energico e prudente, un uomo di curiosità universale che tuttavia sa capire don Mariano Arena, farsi uguale a lui, come i tirannicidi che a loro modo somigliano ai tiranni: «”Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo”. “Anche lei” disse il capitano con una certa emozione».

Bellodi dunque non è, come spesso si dice in letteratura, un personaggio realmente esistito, ma è una folla di personaggi che realmente esisteranno, non è ispirato ma ispiratore, è tutti gli eroi antimafia che l’Italia ha conosciuto, come Renzo è tutti i promessi sposi, Ulisse è tutti i vagabondi, Pinocchio è tutti i bambini del mondo. Romanzo di formazione, Il giorno della civetta ha educato almeno due generazioni. È infatti un romanzo, ma è stato anche un’atmosfera di passione intellettuale: «Incredibile è anche l’Italia: e bisogna andare in Sicilia per constatare quanto è incredibile l’Italia». Libro audace e radicale, di cultura impetuosa e vibrante nella Sicilia criminale e indolente di quegli anni e dei successivi - i Sessanta e i Settanta -, Il giorno della civetta è stato il Sessantotto, quel che di Sessantotto poteva esserci in Sicilia, il Sessantotto siciliano che ha cambiato il mondo. E dunque era ovvio che un qualunque giovane, vincitore di un concorso in magistratura, si impadronisse di Bellodi, che diventava più lui stesso di se stesso, e che già al primo incarico quel giovane magistrato si mettesse a cercare le prove: «Sapete che cosa c’era stasera su un giornale romano? … Non lo sapete, beato voi: ché a me è toccato sentirlo dall’interessato che, vi assicuro, era incazzato da fare spavento... C’era la fotografia, ingrandita a mezza pagina, di..., voi capite chi, a lato di don Mariano Arena... Cose dell’altro mondo... Un fotomontaggio? Ma che fotomontaggio: fotografia autentica... Ma bene: non ve ne importa niente?... Siete originale davvero... Lo so benissimo anch'io che noi non abbiamo colpa se sua eccellenza ha avuto l’ingenuità, diciamo così, di farsi fotografare insieme a don Mariano...». Il primo avviso di garanzia al senatore Giulio Andreotti arrivò il 27 marzo del 1993, a trentadue anni dal Giorno della civetta.

E difatti in Bellodi ci sono anche gli epigoni degli eroi antimafia e, ancora oltre, gli epigoni degli epigoni, più in là degli stessi professionisti dell’antimafia che Leonardo Sciascia, nel 1987, avrebbe denunziato, con una delle polemiche più appassionate e più dolorose del dopoguerra, l’ammiraglia delle polemiche, che il Corriere della Sera è ancora fiero di avere ospitato, come è fiero delle polemiche corsare di Pier Paolo Pasolini. Entrambi, il corsaro e l'ammiraglio dei polemisti, colpivano il conformismo intellettuale anche quando esso praticava luoghi eversivi, rivoluzionari, nobili. Quella di Sciascia fu addirittura una polemica contro i suoi stessi figli, contro i rampolli del Giorno della civetta e del capitano Bellodi appunto: Sciascia contro gli sciasciani, la voce contro la sua eco, l’originale contro la copia.

Già nel 1961, nello stesso Giorno della civetta, Sciascia quasi li prefigura, questi epigoni di Bellodi, nel cane Barruggieddu, un cane che troppo abbaia, troppo morde, un cane che porta un nome storpiato, quello appunto dei Barruggeddi o Bargieddi, sceriffi siciliani che «un tempo [...] comandavano i paesi e mandavano gente alla forca»: «Ho capito — disse il capitano — vuol dire Bargello: il capo degli sbirri». Si può rabbrividire nel leggere queste righe di profetico scetticismo sull’antimafia nel libro che sicuramente è il manifesto culturale e politico dell’antimafia: «‘Bargello come me: anch'io col mio breve raggio di corda, col mio collare, col mio furore’... E ancora pensò di sé: ‘cane della legge’; e poi pensò ‘cani del Signore’, che erano i domenicani, e ‘Inquisizione’: parola che scese come in una vuota oscura cripta, cupamente svegliando gli echi della fantasia e della storia. E con pena si chiese se non avesse già valicato, fanatico cane della legge, la soglia di quella cripta».

Quando Sciascia, appunto il 10 gennaio del 1987 sul Corriere della Sera, denunzierà il rischio, ormai reale, di questa degenerazione, su di lui si abbatterà una violenza feroce, pari a quella che apre Il giorno della civetta: una scarica di pallettoni, non di piombo questa volta, ma di parole, «e le parole — dice don Mariano Arena — non sono come i cani cui si può fischiare a richiamarli».

Uomini per bene, ma ebbri di indignazione, come Carlo Muscetta, come il sociologo Pino Arlacchi, come Leoluca Orlando, dissero che Sciascia era complice della mafia, «oggettivamente mafioso», che era diventato un «quaquaraquà», un «apologeta dei mafiosi». Persino un grande giornalista, Giorgio Bocca, ancora nel 1991 — Sciascia era morto il 21 novembre del 1989, a 68 anni - nel libro Il provinciale scrive che Sciascia «non era mafioso ma pensava mafioso, aveva sensibilità mafiosa». Ed ecco l’incredibile ritratto che Bocca fa di Sciascia, ecco come trasfigura la sua discrezione proverbiale, come caricaturizza il suo pudore ingenuo, come deturpa la sua dolcissima timidezza: «Era seduto a un tavolino, aveva ordinato una granita di caffè, indossava un abito di lino bianco, camicia bianca e cravatta nera, in capo un panama giallo chiaro». Nessun altro, prima di Bocca, aveva mai visto, e nessun altro mai più vedrà Leonardo Sciascia vestito di lino bianco. E del resto, molti anni prima, lo stesso Sciascia aveva dichiarato: «Odio i cappelli, e mai potrei indossarne uno». Ma continua ancora Bocca: «Teneva gli occhi socchiusi, parlava a voce bassa, mi raccontava della mafia in un modo che non avevo mai sentito, con una conoscenza interna, come della famiglia della casa accanto, di cui non sapeva esattamente le cose segrete ma di cui conosceva esattamente il modo di pensare, di odiare, di sospettare, di agire». E Bocca conclude: «Solo la mafia conosce se stessa».

Cosa rimane di tanta violenza? Una bolla d’aria infetta, un veleno d’inciviltà, e questo libro, appunto, che è una polemica che dura da quasi mezzo secolo. Bocciato dall’accademia italiana come un ameno e fugace best seller buono appena per ispirare il bellissimo film (1967) di Damiano Damiani con Franco Nero e Claudia Cardinale, è uno dei libri più tradotti e venduti del mondo. E il suo autore è, in tutto il mondo, letto e celebrato, grande tra i grandi della letteratura di tutti i tempi, caposcuola di un genere di letteratura civile, dallo Svizzero Dürrenmatt allo spagnolo Vásquez Montalbán, al marsigliese Izzo. E tuttavia la monumentale Storia d’Italia, pubblicata nel 1976 da Einaudi, nel volume dedicato alla storia della cultura, ancora ignora il nome di Leonardo Sciascia: neppure un accenno, un’allusione a questo libro e al suo autore, che già era importante e famoso. Semplicemente, non c’è. All’accademico compilatore di quell’enciclopedia Sciascia non piaceva, e va bene. Ma è come se uno storico eliminasse dalla storia del Novecento i personaggi che non gli piacciono, Hitler per esempio, o Churchill, o Gramsci, o papa Giovanni.

Eppure chi non ha letto Il giorno della Civetta – ma chi non l’ha letto? – scoprirà di conoscerne anche i dettagli, di averlo già tutto dentro la testa, di abitare in un’Italia che da questo libro è stata arredata e che senza questo libro non esisterebbe. E gli sembrerà persino di averlo già letto in molti altri libri che ha letto, e magari pure in troppi. È qui, per esempio, che il carabiniere esce dalle barzellette e diventa un eroe illuminista, un filosofo umanista capace persino di smascherare la mafia con un trucco di sapienza letteraria, il verbale di una falsa confessione, che è la grande idea sciasciana della letteratura come forma nobile del vivere obliquo, la cultura che occupa il terreno in cui si alimenta la mafia, ne prende il posto, la cultura e la ragione al posto della mafia che è anch'essa un vivere obliquo, ma torvo: «Era un falso magistrale, di perfetta verosimiglianza [...], nato dalla collaborazione di tre marescialli». Ed è con questo romanzo che la verità dell’Italia finisce per la prima volta «nel fondo di un pozzo», e non esistono confidenti o pentiti che possano raccontarla, loro che «per la paura di morire ogni giorno affrontano la morte»: Parrinieddu «scrisse su un foglio sottile da posta aerea due nomi e poi ‘sono morto’ [...]. La sua lettera il capitano la lesse dopo averne appresa la morte [...]. Quell‘uomo usciva dalla scena del mondo con un'ultima delazione, la più precisa ed esplosiva che avesse mai fatto».

Con questo romanzo vengono seppelliti gli orrendi delitti passionali: «Cercate la donna, insomma, diceva il giornalista: da buon giornalista e da buon siciliano; e invece, avrebbero dovuto darlo come precetto alla polizia, in Sicilia, pensava il capitano, bisognava non cercare la donna: perché si finiva sempre col trovarla, e a danno della giustizia». In questo romanzo diventano maschere italiane i cornuti, perché «un bosco di corna è l’umanità», e ovviamente gli sbirri: «non metterti in testa che gli sbirri siano tutti stupidi: ce ne sono che, ad uno come te, possano togliere le scarpe dai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene». Sono trovate inimitabili che, imitate e saccheggiate, hanno presto dato vita a un manierismo molesto, come sempre accade con i classici: «Non credere che uno è cornuto perché le corna gliele mettono in testa le donne, o si fa prete perché ad un certo punto gli viene la vocazione: ci si nasce. Ed uno non si fa sbirro perché ad un certo punto ha bisogno di buscare qualcosa, o perché legge un bando d’arruolamento: si fa sbirro perché sbirro era nato». E ovviamente il manierismo si è impadronito d’ogni cosa: dei siciliani omertosi che «hanno facce di ciechi senza sguardo»; dell'uso del dialetto che in Sciascia era scienza della bella parola, e adesso è diventato folklore arbitrario e bizzarro; della sicilitudine che è l’alibi misterioso per ogni pigrizia, per ogni debolezza, per ogni eccesso di stupidità e di pittoresco. Così il pranzo in Sicilia è «una gran mangiata», l'amicizia è ovviamente «complicità», l’amore è «cieca gelosia», lo sguardo è «assassino», e i siciliani sono tutti sospettosi e sospettabili e ovviamente mafiologi, tutti autorizzati, dal certificato di nascita, a esprimersi per oracoli sulla loro Sicilia che è donna «misteriosa, implacabile, vendicativa; e bellissima».

Al contrario, Sciascia considerava il potere dei luoghi comuni tanto nocivo quanto quello della mafia. Ed era così consapevole del manierismo che poteva nascerne che, nelle ultime pagine, ambientate a Parma, già mostra come proprio quel che della Sicilia angustia e angoscia ogni siciliano di retto sentimento e di ragione possa facilmente, attraverso la complice eccitazione letteraria, diventare per tutti gli altri motivo di attrazione, di amore e di esaltazione: «Trovarono la sorella di Livia e due altre ragazze distese su un tappeto davanti al fuoco: i bicchieri a lato [...]. Anche loro adoravano la Sicilia. Abbrividirono deliziosamente dei coltelli che, secondo loro, la gelosia faceva lampeggiare. Compiansero le donne siciliane e un po’ le invidiarono. Il rosso del sangue diventò il rosso di Guttuso. Il gallo di Picasso, che faceva da copertina al Bell’Antonio di Brancati, dissero delizioso emblema della Sicilia. Di nuovo abbrividirono pensando alla mafia; e chiesero spiegazioni, racconti delle terribili cose che, certamente, il capitano aveva visto».

Chissà, inoltre, quanti quaquaraquà hanno usato Il giorno della civetta come manuale di umanizzazione, come prontuario per diventare uomini. E quanti si sono accorti d'essere irreversibilmente «piglianculo», «che vanno diventando un esercito», e quanti ancora non hanno visto la propria natura di ominicchi «che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi». Sciascia non ci dice se uno dei suoi quaquaraquè potrà mai diventare un uomo, né se esiste un autista che porta ciascuno di noi alla propria destinazione definitiva, senza redimibilità, senza affrancamento, senza salvazione. Insomma non sappiamo se c'è la mobilità in questa celebre classificazione sciasciana, se in essa si possa ascendere o discendere. Sappiamo però che gli scrittori descrivono sostanze, e sappiamo che il capitano Bellodi, alla fine del libro, e proprio nell’ultima riga, nella sua Parma dove è ritornato sconfitto promette che tornerà in Sicilia, ma non si illude di poterla cambiare: «”Mi ci romperò la testa” disse a voce alta».

Noi sappiamo che se l’è rotta, che ancora ce la rompiamo, ma che sono cambiate la letteratura, la Sicilia, e l’Italia. È con questo libro, per cominciare, che la scrittura impegnata chiude con il fascismo e con la guerra, capisce le nuove emergenze, racconta i nuovi protagonisti, sostituisce alle lotte contadine la lotta alla mafia. Anche se Sciascia non abbandona mai completamente le strade tradizionali dell’impegno italiano, e come per tenere ancora la staffetta che gli passarono i suoi Fenoglio e i suoi Calvino dà al capitano Bellodi la patente di antifascista: era un ex partigiano che «faceva quello che in antico si diceva il mestiere delle armi, e in un corpo di polizia, con la fede di un uomo che ha partecipato a una rivoluzione e dalla rivoluzione ha visto sorgere la legge: e questa legge che assicurava libertà e giustizia, la legge della Repubblica, serviva e faceva rispettare».

Alla fine, dentro Il giorno della civetta, c'è l’Italia com'era, e c’è l’Italia com’è diventata. Senza il capitano Bellodi non si può capire com’erano fatti loro e come siamo fatti noi. La bellezza femminile, per esempio, qui è una collusione, un peccato sociale, non è ancora valore, e valore – perché no? – antimafia. Solo la moglie di sua eccellenza nel romanzo è «una gatta [...] nuda e bellissima [...] vestita di Chanel numero cinque», mentre la coraggiosa vedova che denuncia gli assassini del marito è soltanto «bellina» e tutte le altre «le lasci che giuocano per strada con le noccioline, torni dopo un paio d'anni e le trovi con bambini attaccati alla veste, e magari sformate nel corpo». Oggi non è più così, e già Sciascia aveva un sodalizio intellettuale straordinario con Elvira Sellerio per esempio, bella, colta e intelligente editrice siciliana che prefigura altre donne siciliane, protagoniste della imprenditoria, della politica, delle università, del cinema, della vita quotidiana, avvenenze di raffinata sensualità per il Cassaro e per via Etnea, donne che non formano più gli uomini ma li fronteggiano e li inseguono, senza lutti dell'anima e del corpo: a loro Sciascia ha insegnato l'orgoglio di essere siciliane, non più tentate e anzi neppure sfiorate dalla mafia; oggi dunque non è più così, se non appunto nelle insopportabili caricature che hanno sostituito al pellegrinaggio di Sciascia dentro la modernità un cumulo di vecchi, pittoreschi detriti, di sguaiati luoghi comuni. È vero, per fare un altro esempio, che il barbiere di paese era in quei tempi la Cassazione, ma dopo quarant'anni neppure a Racalmuto il barbiere è come don Ciccio che, «se dice che il povero Nicolosi era cornuto, possiamo metterci sopra bollo e sigillo che le corna ci sono».

Allo stesso modo i comunisti del Giorno della civetta sono quelli che, pressoché soli, in Sicilia spingevano per un processo di ammodernamento, quelli che hanno dato dignità al lavoro e si sono fatti ammazzare dai mafiosi, i soli che hanno tentato esperimenti forti, uomini idealisti e coraggiosi: non si poteva non stare con loro, e infatti Sciascia ci stava. E però presto anche loro, come il capitano Bellodi, hanno prodotto le loro caricature, i loro epigoni, come quel Fomà Fomič che lo stesso Sciascia, nel Candido (1977), «il mio libro maggiormente autobiografico»  prende amaramente in giro, burocratelli che pensavano che per governare il mondo bastasse governare un partito, e che adesso sono diventati visionari dell'integralismo apocalittico di provincia, dispersi, a brandelli, l'uno nemico dell'altro, con la stessa risonanza etica di tutti gli altri politici siciliani: «Tornando una sera da quelle riunioni, Francesca disse: "E se fossero soltanto degli imbecilli?", e fu il principio della liberazione, della guarigione». Sciascia se ne liberò con dolore per diventare quello che sempre era stato, un radicale, parola chiave dell'etica e della poetica sciasciana, e chissà perché tutti dimenticano che Sciascia fu politico radicale, al fianco di Marco Pannella, radicale come il suo Candido, radicale e sbirro come il capitano Bellodi.

Ancora oggi, mezzo secolo dopo, è a questo libro che bisogna ritornare, oggi che siamo agli epigoni degli epigoni del capitano Bellodi, e in un'Italia che, come allora, fatica a trovare nuovi equilibri, nuovi codici, un nuovo Sciascia, un'Italia la cui verità è, come allora, in fondo al pozzo: «lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c'è più né sole né luna, c'è la verità».

Tornare al Giorno della civetta significa anche tornare alla religione della scrittura e alla ricercatezza formale, che è il controcanto stilistico del vero impegno. E proprio oggi che anche l'impegno è diventato caricatura, parodia, indignazione senza talento, parola senza letteratura. Sciascia, invece, è la scienza della parola puntigliosamente ribadita. Quando lo si legge, si sente subito che la scrittura è tensione intellettuale. L'autore sa di dire cose importanti e non può avere, con la scrittura, un rapporto gioioso e neppure seducente o ammiccante, da creativo pubblicitario. Ha invece un rapporto di responsabilità, il solo rapporto che chiude il cerchio dell'impegno. E difatti Il giorno della civetta è pure un classico della letteratura giallistica, quella che ha dominato il Novecento, con un perfetto dispositivo narrativo che è godimento e svago dell'anima prima di essere impegno, è felicità preziosa del narrare e al tempo stesso sofferenza storica, descrizione di anime umane che sono pure esseri sociali, è il libro dentro il quale scorre il sangue del nostro Paese.

Il Giorno della civetta

…come la civetta quando

  di giorno compare

SHAKESPARE, Enrico VI

Sky Bet by bettingy.com