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I MIEI PRIMI ANNI di Jacob Levi Moreno

All’inizio del XX secolo un uomo cercò di diventare Dio: accadde a Vienna, tra il 1908 e il 1914. La cosa suscitò grande impressione tra i suoi contemporanei: egli aveva i propri apostoli, il proprio vangelo, i propri apocrifi. I libri religiosi in cui espresse la sua dottrina ebbero profondi riflessi nel mondo intellettuale. Le guerre e le rivoluzioni crudeli, che l’umanità ha attraversato da allora, hanno distrutto o disperso la maggior parte dei testimoni originali, ma alcuni sono ancora vivi ed io sono uno di loro.
La storia di come un uomo possa diventare Dio non è di per sé straordinaria. Molti hanno tentato e hanno fallito. È però straordinario che il suo principale protagonista abbia pubblicato un’attenta cronaca degli eventi interni ed esterni.
E’ straordinario, inoltre, perché descrive non solo la trasformazione di un uomo in Dio, ma il contrario, la trasformazione di Dio in uomo. Ne descrive l’irta salita, su per la collina, e poi la discesa; lo vede in entrambi i modi, è il suo stesso controllo. Infine è straordinario perché l’uomo che ha affrontato questa spedizione cosmica era del tutto “normale” e, in contrasto con le teorie psicologiche correnti, tornò illeso, divenne più produttivo e fu maggiormente in grado di venire incontro alle esigenze della vita. Ci si può chiedere: come mai un uomo vissuto nel primo quarto del XX secolo nel cuore dell’Europa è stato vittima di quest’avventura? Nessuno si meraviglierebbe se fosse stato un personaggio del Medioevo o di un qualunque altro periodo, quando l’aspetto religioso era preponderante nella vita di ciascuno. Il periodo di cui stiamo parlando è però quello dell’ateismo e dell’agnosticismo, di un’orgogliosa assenza di Dio. C’è quindi da chiedersi: per quale motivo un uomo colto abbia avuto la necessità di dedicarsi a un’impresa così assurda e bizzarra?
Sono nato il 18 maggio 1889, in una notte tempestosa, su una nave che attraverso il Mar Nero procedeva lungo il Bosforo. La destinazione finale di quel viaggio avrebbe dovuto essere Constanta, in Romania. Era l’alba del Sabato Santo e il parto avvenne poco prima della preghiera mattutina. Il fatto che io sia nato su una nave fu dovuto a un banale errore di calcolo da parte di mia madre, appena sedicenne e quindi con scarsa esperienza sull’esatto periodo della gestazione. Nessuno conosceva l’identità della bandiera della nave: era greca, turca, rumena, italiana o spagnola? Questo fu l’inizio del mio anonimato e della mancanza di cittadinanza. Quando, nel 1914, scoppiò la prima guerra mondiale, nessuno sapeva se fossi turco, greco, rumeno, italiano o spagnolo, perché non avevo certificato di nascita. Quando poi offrii i miei servizi alla monarchia austro-ungarica, inizialmente non fui accettato, perché non possedevo prove della mia reale nazionalità. Nacqui come cittadino del mondo, un marinaio che va di mare in mare, di paese in paese, destinato a sbarcare un giorno nel porto di New York (1).
Mia madre non ha mai confermato questa fantasiosa storia sulla mia nascita; faceva continuamente commenti e variazioni: “Era una notte tempestosa. Era l’alba del Sabato Santo. Navigavi su una nave, ma la nave era il mio corpo, che ti ha trasportato”. Da qui la storia della mia nascita si è trasferita nel regno del mito. I miei genitori erano ebrei sefarditi. Mia madre, Pauline, era un’orfana che, una volta adolescente, venne mandata dai due fratelli maggiori a scuola in un convento cattolico perché non avevano idea di come prendersi cura di una ragazza e perché l’unico posto in cui le ragazze potevano essere educate all’epoca era il convento. Le suore esercitarono su di lei una forte pressione per farla convertire al cristianesimo. Sentiva che sarebbero riuscite a convincerla se fosse rimasta in convento un altro anno. I miei zii, temendo anch’essi questa possibilità, combinarono un matrimonio ad appena quindici anni. Un matrimonio a una così tenera età non era del tutto inusuale a quei tempi.
Mia madre aveva un atteggiamento strano e confuso nei confronti della religione, una combinazione di elementi della sua infanzia ebraica e dei suoi anni trascorsi in convento. Era superstiziosa, credeva profondamente nell’interpretazione dei sogni e nella predizione del futuro. Era solita leggere i tarocchi per i vicini, per gli amici e soprattutto per i suoi figli. Prediceva il futuro, le guerre, i matrimoni, le nascite, i divorzi e le morti, leggeva la, fortuna dai fondi del caffè e dalle foglie del the. Leggeva le mani e insegnava come farlo. Era piena di idee e di sogni, una grande narratrice di storie. Versatile nelle lingue, parlava tedesco, spagnolo, francese e naturalmente rumeno, anche se non ha mai imparato a parlare bene l’inglese. Fortunatamente il giudice per l’immigrazione fu comprensivo quando, a settant’anni, fece domanda per la cittadinanza americana, altrimenti il suo grande timore di non ottenere la naturalizzazione si sarebbe avverato.

Mia madre era una donna molto popolare ovunque andasse. Di spirito socievole, parlava con gli estranei, che le rispondevano. Aveva un grande senso dell’umorismo e quando la vita si faceva troppo complicata diceva: “Was kann man machen? Umdrehen und lachen” (Che si puó fare? Voltarsi e ridere). Amava spettegolare e raccontare storie. Era semplice e gentile, buona e materna, sempre piú giovane dei suoi anni. Aveva buon orecchio per la musica e amava cantare nelle diverse lingue che conosceva. Ricordo ancora la sua ninna nanna, un dialogo tra un uomo e un albero scritto da Eminescu, un grande poeta e drammaturgo rumeno:

Uomo: 
Perché dondoli avanti e indietro, piccolo cespuglio? Non c’è pioggia. Non c’è vento. E i tuoi rami giù a terra.

Albero:
Perché non dovrei dondolare? Il mio tempo passa.
I giorni diventano sempre piú brevi, le notti sempre piú lunghe.
E le mie foglie cadono a terra. Presto niente resterà di me.
I miei rami resteranno spogli. 

Mio padre, Nissim Moreno Levy, era magro, alto quasi due metri, serio e riservato, padrone assoluto della propria casa, padre amorevole e affettuoso. Lui e mia madre si separarono definitivamente quando avevo quattordici anni. La separazione avvenne senza nessun conflitto violento o aperto, senza alcun atto formale o legale: sembrò quasi che andassero alla deriva. Ho saputo che a Istanbul, in tarda età, lui si risposò almeno un’altra volta, ma possono essere state anche due o tre volte ancora. Può aver messo al mondo altri figli. Non lo sappiamo con certezza. Le regole per certe cose erano molto più permissive laggiù.
Ho passato i miei primi cinque anni a Bucarest, in Romania, in una casetta sul Danubio. La Romania è una nazione principalmente agricola, il cui grano è rinomato, il migliore che abbia mai mangiato. Il territorio, piuttosto pianeggiante, diventa collinoso verso il confine ungherese. Il Danubio vi scorre attraverso e sbocca nel Mar Nero; il suo delta è responsabile delle ricchezze agricole rumene.
Bucarest è stata spesso definita una piccola Parigi, essendo l’influenza francese molto forte. Tutti i rumeni colti parlavano francese e le mode e la cultura di Parigi erano molto importanti a Bucarest. Come Parigi, la cittá aveva ampi boulevard.

Trascorsi questi primi anni in un ambiente culturale strano e contraddittorio, dove convivevano la civiltà di Parigi e la mentalità contadina analfabeta, il fermento culturale di una città in trasformazione tipica di un grande impero e il provincialismo di un ambiente culturale stagnante.
All’età di un anno fui colpito da una malattia grave e a lento decorso, il cosiddetto “male inglese”, il rachitismo. Non avevo appetito e persi peso. Le gambe e le braccia si deformarono e non riuscivo a camminare. Fui portato di dottore in dottore, ma nessuno dei loro rimedi funzionò, nessuno sapeva come aiutarmi.
Un giorno mia madre si stava prendendo cura di me in cortile quando passò una vecchia zingara, che, notando la mia condizione, si fermò. “Che cosa è successo al piccolo?” chiese a mia madre. Dopo che mia madre ebbe raccontato la mia storia, la zingara scosse il capo e mi indicò con il dito nodoso: “Verrà il giorno,” sembrò guardare nel futuro, “in cui questo bambino sarà un grand’ uomo. La gente verrà da tutto il mondo per vederlo. Sarà saggio e gentile. Non piangere.”
Il mio bambino è così malato,” rispose mia madre.
Guarirà,” disse la vecchia. “Fai ció che ti dico. Va a comprare una carrettata di sabbia e spargila nel cortile. A mezzogiorno, quando il sole brucia, mettici sopra il bambino e il sole lo guarirà dalla sua malattia.”
Mia madre seguì le istruzioni della vecchia zingara e in pochi mesi guarii, anche se i miei denti mostravano ancora segni di deformazione.
In autunno, quando le foglie cambiano colore, ero di nuovo in cortile con mia madre: camminavo, chiacchieravo e giocavo. La zingara tornò, si fermò e mi guardò, il volto le si illuminò di gioia. Parte della sua predizione si era già avverata.
Tra i primissimi eventi che ricordo - all’età di due anni - ci fu la mia prima lotta con un animale. Riuscii a resistere all’attacco di un cane che cercava di mordermi. Mia nonna, la sola spettatrice, era seduta in cortile a cucire quando l’animale apparve, ma essendo debole e malata di cancro, non poté venire in mio soccorso. Fui ferito gravemente da diversi morsi sulla mano destra e sviluppai un’avversione per gli animali durata tutta la vita. Preferisco gli esseri umani. 
Poco dopo ho avuto il mio primo incontro con la morte. Mia nonna si spegneva rapidamente, e alla fine morì di quel cancro che l’aveva indebolita. La ricordo distesa sul letto di morte, con due lunghi ceri ai lati del capo.
In quel periodo scoppiò un terribile incendio dall’altro lato della strada. Ci fu un’esplosione e i pompieri arrivarono di corsa. Una donna bruciò viva. La morte di mia nonna e l’incendio si intrecciarono dunque nella mia mente. Ricordo che affrontai la morte di mia nonna senza paura, ma la mia avversione per il fuoco è pari a quella per i cani.
Ci sono altri ricordi legati a questo stesso periodo. Mia zia Bulissa, la sorella maggiore di mio padre, viveva nella  nostra stessa strada. Aveva una casa con una veranda. Una delle mie cugine si era fidanzata e ricordo che sedeva col suo promesso sposo sul portico, mano nella mano, e si scambiavano baci. Erano, per così dire, in mostra, perché tutta la città potesse venire a conoscenza della loro relazione. Nulla veniva nascosto, tutto avveniva alla luce del sole, l’ostentazione di un’esperienza molto personale, diversamente da quanto accade in America. Gli amici e i vicini venivano a casa e portavano fiori e regali. Questo spettacolo delle intenzioni andò avanti per diverse settimane, o comunque per il tempo necessario a proclamare il loro fidanzamento ufficiale. Mia cugina era giovane e bella e il suo fidanzato altrettanto attraente.
Durante la mia infanzia, nel periodo delle festività, facevamo fantastiche cene e riunioni familiari. Questi pasti erano frequentati da un gran numero di persone anziane o almeno così mi sembravano. Come figlio maggiore, prima di sedermi a tavola, dovevo andare di ospite in ospite, fare un inchino e baciare la mano alle signore.
Quando emigrai in America, come per istinto di gentiluomo, mantenni l’usanza di baciare la mano alle signore. Onestamente credo che il mio successo sia dipeso anche dal numero di mani che ho baciato e dall’apprezzamento delle donne. Era così europeo! Un grazioso messaggio del Continente al Nuovo Mondo.
All’età di quattro anni cominciai a frequentare la scuola sefardita, diretta dal rabbino Bigireanu. Per la prima volta mi trovai di fronte alla Bibbia, al libro della Genesi, che inizia con le parole “Brayshth Boro Elohim es Hashomain ves Ho-orets” (In principio Dio creò il cielo e la terra). E’ stato qui che probabilmente ho imparato a leggere per la prima volta, in ebraico.
A quei tempi nessuna casa aveva i servizi e noi avevamo una latrina esterna. Piroshka, la nostra cameriera ungherese, mi portava alla latrina a intervalli regolari e mi introdusse ai misteri dell’orinazione e della defecazione. Faceva terribilmente freddo e sul terreno c’era spesso la neve.
La mia visione di Piroshka era quella di un guru dall’animismo mistico. Mi spiegava che l’orina va nell’acqua, nel fiume, nel lago. Le feci vanno nel suolo, nella terra delle colline circostanti. Mi trasmetteva un profondo rispetto, non solo per lei ma anche per i primitivi eventi cosmici e per il mio posto nell’universo.
Quindi, la mia attrazione per l’idea di Dio è iniziata già nella prima infanzia. L’Essere piú importante nell’Universo era Dio, e mi piaceva essere legato a Lui. La prima sessione psicodrammatica ebbe luogo quando interpretai Dio all’età di cinque anni, nel 1894.

Una domenica pomeriggio i miei genitori uscirono per far visita ad alcuni nostri amici, ed io rimasi a casa a giocare con i figli dei vicini. Eravamo nel seminterrato della mia abitazione, una grande stanza vuota, con solo un grosso tavolo di quercia nel mezzo. 
Cercando un gioco da fare io proposi: “Giochiamo a Dio e ai suoi angeli.
Chi fa Dio?” mi chiesero.
Io sarò Dio e voi i miei angeli,” risposi. Furono tutti d’accordo.
Prima dobbiamo costruire il paradiso,” dichiarò uno di loro.
Trascinammo sedie da tutta la casa nel seminterrato, le mettemmo sopra al grande tavolo, e cominciammo a costruire una sorta di cielo dopo l’altro, unendo diverse sedie a un livello e poi impilandone altre sopra, fino a raggiungere il soffitto. Allora tutti i bambini mi aiutarono a salire in cima alle sedie, dove mi sedetti comodamente. I bambini si misero in circolo intorno a me, muovendo le braccia, come fossero ali, e cantando. Uno o due dei bambini piú grandi tenevano ferma la montagna di sedie che avevamo assemblato. All’ improvviso uno di loro mi chiese: “Perché non voli?” Io allungai le braccia e provai. Anche gli angeli, quelli che tenevano le sedie fecero l’atto di volare. Poco dopo caddi e mi ritrovai sul pavimento con un braccio rotto.

Lo psicodramma del Dio caduto è stato, per quel che ricordo, la prima sessione psicodrammatica “privata” che abbia condotto e del quale fui al tempo stesso regista e protagonista. Mi hanno spesso chiesto perché il palcoscenico dello psicodramma ha la forma che ha. La prima ispirazione puó essermi venuta proprio da questa esperienza personale. I cieli fino al soffitto possono aver preparato la strada verso la mia idea dei molti livelli del palcoscenico dello psicodramma, la sua dimensione verticale: il primo livello, quello del concepimento; il secondo livello, quello della crescita; il terzo, quello del completamento e dell’azione; il quarto, il balcone, il livello del “Superego”, del Messia e dell’Eroe
La mia preparazione al difficile “ruolo” di Dio può aver anticipato il processo di preparazione della recitazione di ruoli spontanei sul palcoscenico dello psicodramma. Il fatto che caddi quando gli altri bambini smisero di reggere le sedie può avermi insegnato che anche l’essere più elevato dipende dagli altri, “ego ausiliari”, e che il paziente-attore ha bisogno di loro per recitare in modo appropriato. E gradualmente imparai che anche agli altri piace interpretare Dio.
Uno dei ricordi piú vividi della mia infanzia risale all’età di sei anni. Nel bel mezzo della notte, insieme a uno dei miei fratelli più piccoli, scivolai in cucina, dove mia madre aveva messo a lievitare l’impasto per una grande torta. Lavorammo in silenzio, nell’oscurità e poi tornammo di nuovo a letto. Quando, il giorno dopo, mia madre andò in cucina, inorridì nel vedere che l’impasto era sparito e al suo posto c’erano parti dell’impasto stesso raffiguranti persone, animali e oggetti, posti sia sul tavolo sia sul pavimento, nel lavello e sui davanzali. Non deve essere stato facile ricomporre l’impasto dalle figure. Quando ci svegliammo non riuscimmo a credere ai nostri occhi nel vedere la torta sul tavolo.
La morale della storia è che i grandi uomini cominciano a scrivere i loro celebri libri nella culla, subito dopo aver imparato a camminare e a parlare. Creai il mondo e scrissi il libro Le  parole del padre con l’impasto, prima di scriverle con l’inchiostro.
Mia madre si adattò rapidamente alla vita di Vienna, grazie anche al suo talento per le lingue e alla sua natura socievole. Mio padre invece non padroneggiò mai del tutto il tedesco. Commerciante, sempre in viaggio, non restava mai in un posto abbastanza a lungo da imparare bene una lingua. Non imparò mai ad accettare i costumi austriaci. La trasformazione della nostra famiglia in una famiglia viennese fu per lui abbastanza rivoluzionaria. Non riusciva a farvi fronte, rimanendo fedele alla sua origine rumeno-sefardita...
Comunque, la nostra trasformazione non fu mai completa. Eravamo una delle tipiche famiglie ebree ai margini della società che sopravviveva grazie a una famiglia fortemente unita. Restammo a Vienna quasi fino a quando non ci imbarcammo per gli Stati Uniti, come stranieri o rifugiati. Nell’impero austro-ungarico in quel periodo erano migliaia le famiglie come la nostra, tollerate dal governo fintanto che restavano quiete, non rappresentando così una minaccia per la stabilità dello Stato.
A questo si dovrebbe aggiungere che vivevamo in un ambiente fortemente permeato di aggressivo nazionalismo tedesco, appoggiato da un consistente gruppo di sostenitori cattolici. La nostra famiglia era al di fuori dalla corrente principale della vita austriaca, sotto svariati punti di vista.
Le frequenti assenze di mio padre e la sua successiva separazione da noi mise me, il primogenito, già molto presto, in una particolare posizione di autorità. La figura centrale della famiglia era sempre mia madre, la cui esemplare devozione nei confronti dei figli non fu comunque in grado di sostituire l’assenza di una guida forte, che di solito ci si aspetta dal padre. Ora che penso al ruolo di mio padre in famiglia, mi viene in mente un’immagine risalente ai primi tempi in cui ero a Vienna, quando di domenica pomeriggio eravamo soliti uscire per una passeggiata con lui. Noi bambini marciavamo in formazione, in coppia, maschio-femmina, maschio-femmina, maschio-femmina, e lui e mia madre formavano la retroguardia. Io, in testa alla colonna, avevo il compito di controllare il traffico quando attraversavamo la strada.
In quel periodo l’osservanza religiosa cominciò a deteriorarsi tra gli ebrei, tranne che nelle famiglie molto ortodosse dove le costrizioni rituali avevano di gran lunga preso il posto dei sentimenti e della fede religiosa. Questo affievolirsi del sentimento religioso coinvolse anche la nostra famiglia, ma la tradizione era ancora abbastanza forte da aiutare a tenere insieme la famiglia fino a quando le ragazze non fossero state abbastanza grandi da sposarsi e i ragazzi in grado di guadagnarsi da vivere. Eravamo in un quartiere misto, ebrei e gentili, sia a Bucarest che a Vienna, esposti a una grande varietà di influenze durante tutta la nostra infanzia. Gli anni che mia madre aveva trascorso in convento ci furono utili per apprendere come trattare con le persone in un ambiente culturale così aggressivamente cattolico, qual era quello austriaco durante la mia giovinezza.

Nonostante la mia vita familiare non enfatizzasse lo sviluppo di un’identità ebraica incrollabile, ebbi il mio Bar Mitzvah (2) nel Tempio sefardita di Vienna. Ho solo un ricordo confuso dell’evento e dell’inevitabile istruzione religiosa che deve averlo preceduto. Il Bar Mitzvah ha avuto luogo in un periodo relativamente calmo della mia gioventù, un inter-regno prima della separazione definitiva dei miei genitori. Erano entrambi presenti alla cerimonia.
Un legame ben più importante con la vecchia vita dei Balcani era la nostra alimentazione. Mia nonna paterna aveva insegnato a mia madre a cucinare tutte le antiche pietanze, come le melanzane e il baklava (3). Continuammo a mangiare piatti dei Balcani e la cena rappresentava sempre un momento fondamentale per quei tempi.
Gli affari di commercio di mio padre a Vienna cominciarono ad andar male, dopo un inizio favorevole. Vendeva merci alla Serbia, alla Romania, alla Bulgaria e alla Turchia e a volte arrivava fino a Smirne o in Palestina, ma aveva difficoltà nel farsi pagare. I contratti scritti non solo erano una rarità, ma gli uomini d’affari che vi facevano ricorso venivano giudicati addirittura con discredito. Mio padre dovette trascorrere periodi sempre più lunghi lontano da casa, cosa che, a sua volta, lo alienò da noi. Non passò molto tempo che la sua capacità di mantenere la famiglia si indebolì. I miei due zii, ancora scapoli, Markus e Jancu, intervennero, assumendo la responsabilità del nostro mantenimento. Erano entrambi ricchi commercianti di grano, particolarmente affezionati alla sorella minore, cioè mia madre.
Mio padre si fece vedere sempre più raramente a Vienna, e ogni volta per pochi giorni. Per quanto mi riguarda, mi schierai dalla sua parte, anche se non seppi mai chiaramente i motivi della rottura fra i miei genitori. I miei zii furono molto coinvolti nel disfacimento della nostra famiglia. Zio Markus e zio Jancu avevano tre sorelle minori che, curiosamente, sposarono uomini che non ebbero successo. In realtà furono gli zii a scegliere i loro mariti: erano tempi di matrimoni combinati. In retrospettiva, ho l’impressione che, legandole a commercianti inetti, volessero continuare a tenersele strette e a dominarle. In una delle sue visite mio padre ci comunicò la notizia che uno dei suoi fratelli maggiori, un medico di Istanbul, era morto durante un’epidemia di colera. Mio padre disse: “Forse dovresti seguire il suo esempio e diventare un medico”. E fu proprio quello che feci.
Il mio comportamento a scuola era esemplare sicché ero sempre il preferito degli insegnanti. Ero davvero un bravo ragazzo. Ogniqualvolta c’era da espletare un qualche incarico, come ad esempio spiegare nuovi compiti agli altri bambini, gli insegnanti chiedevano a me di farlo. Ero insomma il vice dell’insegnante, sempre in prima fila e a disposizione, molto orgoglioso della posizione in classe, divenendo quello che i tedeschi chiamano ein stolzer Knabe
Comunque ero molto popolare anche tra gli altri bambini, che sembravano accettare e apprezzare la mia leadership e la mia condizione di superiorità.
La mia vita, a quei tempi, era molto regolata e ordinata. Appena uscivo da scuola, andavo direttamente a casa e facevo quello che ci si aspettava da me. Mi è stato raccontato che ero un bambino molto felice, anche se non fui mai un bambino “normale”. Nonostante la mia regolarità e la mia estrema buona condotta, ero molto, molto attivo e sempre al centro degli eventi, mai uno spettatore.
Mi hanno chiesto se il mio fascino per i giochi infantili, che è stato così centrale per lo sviluppo della mia Teoria della Spontaneità e della Creatività, sia originato dai giochi con i miei cinque fratelli e sorelle. In realtà rimasi sempre isolato durante tutta l’infanzia, mi associavo a loro solo nella normale routine della vita domestica.
Dopo essere guarito dalla malaria (4), mio padre disse: “Ti porterò in vacanza a Istanbul, a visitare i nostri parenti.” Ebbi così modo di frequentare un harem per qualche tempo.
Quando visitammo la proprietà del prozio di mio padre fui accompagnato all’harem, dietro l’edificio principale della casa. 
Ricordo di aver camminato attraverso un corridoio molto buio alla fine del quale si intravedeva una luce. Mio padre naturalmente era escluso ed io venni accompagnato da due eunuchi, uomini castrati ma in grado di avere erezioni.
Quando la grande porta si aprì mi ritrovai in una bella piazza con una piscina nel mezzo. Quaranta o cinquanta ragazze, tutte nude, facevano il bagno e si massaggiavano tra loro. Non ho mai visto tante belle donne in vita mia in un solo posto: avevano tutte la pelle bianca, di età compresa tra i quindici e ventun anni. Tutte mi salutarono amichevolmente, mi fecero visitare l’harem e mi abbracciarono. Ero molto imbarazzato. C’erano pochi altri bambini nell’harem. Una donna di età maggiore, sulla trentina, controllava la situazione. Era la moglie legittima del proprietario dell’harem, che tutti trattavano come una regina.
L’harem, un’istituzione misteriosa per gli occidentali, è circondato da molto folklore. In sostanza, nacque come meccanismo sociale per prendersi cura delle donne sole ed emarginate dalla società. Il ruolo della donna era quello di sposarsi o diventare una concubina presso qualche casa. Una donna non sposata poteva vivere nella casa di un parente, ma la sua condizione era misera, anche se viveva con una persona ricca. Un uomo poteva avere un massimo di quattro mogli secondo la legge islamica e tutte le concubine che riusciva a mantenere. Non esisteva prostituzione nei paesi islamici.
Le concubine appartenevano al proprietario dell’harem. C’era un mercato molto vivace di compravendita, dove le ragazze erano vendute per denaro o barattate con pecore, tessuti, e qualunque altra merce che il compratore e il venditore potevano concordare. Era sempre possibile per la concubina acquistare la libertà e farsi combinare un matrimonio, purché fosse in grado di procurarsi la dote necessaria.

Secondo le regole, il proprietario dell’harem era obbligato a prendersi cura delle donne finché erano in vita. In cambio queste svolgevano lavori utili per il loro padrone: tessevano pezze e stoffe, cucivano, disegnavano, dipingevano, cucinavano, mettevano in ordine la casa. Spesso erano lavori duri, ma in compenso una donna che viveva in un harem non veniva mai abbandonata.
Solo il proprietario dell’harem aveva rapporti con le concubine, anche se in qualche paese islamico era costume condividerle con gli ospiti. Gli eunuchi dell’harem che visitai si accoppiavano liberamente con le ragazze. Con loro non c’era ovviamente alcuna possibilità di gravidanza. In generale, c’era una certa tendenza da parte delle donne a evitare la gravidanza e questo spiega perché, nell’harem che avevo visitato, vidi così pochi bambini. Le ragazze si preoccupavano principalmente di mantenersi giovani e belle e sembravano trascorrere la maggior parte del tempo a tenere elastica la pelle del corpo e del viso, a oliarsi e a profumarsi, a massaggiarsi, a fare il bagno. Le donne invecchiavano presto in Turchia, e a trent’anni dovevano fare attenzione a mantenere gradevole il proprio aspetto.
Mentre ero a Istanbul, fui promesso in matrimonio alla figlia di nove anni di un cugino di mio padre. Era combinato tutto prima, secondo un rituale semplice, i cui dettagli non riesco a rammentare. Ricordo invece di aver chiesto a mio padre se dovevo mandare un regalo a quella bambina. Alla “sposa” fu mandato un pezzo di torta e altri doni, in conformità con le usanze. Naturalmente, non ho mai mantenuto la promessa. In ogni caso, la promessa di matrimonio tra bambini fu abolita, insieme all’abolizione dell’harem e del concubinato, nel 1923 quando Ataturk sali al potere. Sono cresciuto con un carattere indipendente, difficile da gestire, con una volontà mia, subito al di fuori dell’orbita familiare. Un bambino non potrà mai ripagare la propria madre per ció che ha fatto per lui nei primi anni di vita. Egli non ricorda nulla; è tutto nella mente della madre. Inoltre il bambino cresce fuori dal grembo materno, nel mondo, e le madri lo sentono e lo temono, persino. Per loro il bambino è sempre piccolo, in verità cresce una volta a contatto con il mondo, per non tornare mai piú. Mia madre soleva dirci, mezza triste, mezza sorridente: “Quando eravate piccoli e vi comportavate male, potevo darvi qualche sculacciata ed era tutto finito. Ma ora siete grandi, che posso fare? Se dovessi rinascere non vorrei essere una madre, lieber ein Hund (meglio un cane)”. Era questo che mi ripeteva, quando, ormai grande, aspettava una mia visita, ma io non andavo o non ero puntuale. Quando finalmente arrivavo, ormai stanca, diceva: ‘Lieber ein Hund’.
Quando avevo tredici anni mio zio Markus prese moglie. Zio Jancu era, invece, un fanatico del celibato, e non credo abbia mai avuto contatti col sesso femminile durante tutta la sua vita. Era molto attaccato a mia madre e, di conseguenza, affezionato anche a me. Per via dei miei progetti di vita, mi chiamava sempre “dottore”. Jancu era spesso solo, soprattutto dopo il matrimonio del fratello. Venne a Vienna e si offrì di portarmi in viaggio per il mondo. Era fiero di viaggiare con me, di essere visto con me, il suo brillante nipote, e si mostrava sicuro che un giorno avrei sorpreso il mondo con la mia abilità.
Il nostro viaggio “intorno al mondo”, in treno e in nave, ci portò da Vienna a Graz, Fiume, Brioni, Trieste, Venezia, Milano, Firenze, Roma, Napoli.
Jancu mi riteneva troppo idealista e poco pratico, con scarso rispetto per gli aspetti materiali della vita e per i mezzi per conquistarli. Puntava l’indice contro di me e mi ammoniva: “Geld regiert die Welt (i soldi fanno girare il mondo), devi ricordarlo sempre.” Io gli scoppiavo a ridere in faccia. Era preoccupato perché non condividevo la sua stessa filosofia del denaro. Mi mostrava che doveva pagare i conti dell’albergo e i biglietti e che tutto costa. Ma nonostante i suoi sforzi per insegnarmi l’importanza del denaro, io non facevo altro che ridere, convinto di poterne fare a meno.
A Firenze alloggiavamo all’Albergo Porta Rossa. Nessuno può immaginare Firenze se non c’è stato. Non si riesce a capire se le statue sui marciapiedi o agli angoli sono persone vere o no. E’ una città creata da Dio per il suo stesso piacere.
Un giorno nell’atrio dell’albergo incontrai Pia, proprio come avevo incontrato le statue e le altre grandi forme d’arte di Firenze. Mantenemmo i contatti con la scusa che mi stava insegnando l’italiano. Era una bella ragazza di quindici anni. La nostra relazione fu del tutto innocente, in effetti era eccessivamente virtuosa. Non credo di averle mai neanche baciato la mano. Si comportava in modo assolutamente non italiano e inappropriato, specialmente per quell’epoca. Sgusciava via dalla sua casa tutte le notti per venire a farmi visita in albergo. Temeva, a volte, che il padre potesse scoprire cosa facesse, ma non ricordo che sia mai accaduto.
Mio zio era ansioso di continuare a viaggiare, ancora e ancora. Non capiva perché fossi così incantato da Firenze. La trovavo la città più bella del mondo e anche Pia per me era la ragazza più bella del mondo. Nutrivamo, l’uno per l’altra, un sentimento meraviglioso.
Il mio rapporto col mio nome ha iniziato a complicarsi a Firenze. Il mio nome biblico era Jacob e quello laico Jacques. Quando, nella prima adolescenza, il mio comportamento cominciò a diventare strano, mi ritrassi sempre di più dalla mia famiglia e, pian piano, iniziai a ritirarmi anche dal mio nome, dal mio primo nome, come se fossi alla ricerca di una nuova identità e forse di un nuovo nome che si adattasse meglio al mio stato ormai mutato e alla mia nuova identità. Conoscere il nome di una persona e chiamarla costituisce un segno d’intimità, che indica vicinanza, eguaglianza di stato, di appartenenza, per così dire, allo stesso clan. Però, anche se non volevo essere chiamato col mio nome, mi comportavo con una certa arroganza perché continuavo a chiamare con il loro nome quelli che frequentavo. Così, alcune persone, come Victoria, Hans, Wilhelm, a causa della mia aria arcigna e virtuosa esitavano a iniziare qualunque conversazione con me e presero a non chiamarmi per nome quando si rivolgevano a me. Invece di dire “Jacques, was willst du?” (Jacques, che vuoi?) tralasciavano Jacques e dicevano “Willst du etwas?” (Vuoi qualcosa?). Non dissi mai chiaramente “Vi prego di non chiamarmi per nome”, ma accadeva sempre piú spesso che la gente percepisse il mio stato d’animo.

C’è un profondo significato psicologico in questo uso e abuso dei nomi. Nella religione mosaica (5) il nome di Dio non deve essere usato, apparentemente per mantenere una maestosa distanza tra la divinità autoritaria e il piccolo uomo. Per quanto mi riguarda, mi aspettavo che la gente assumesse nei miei confronti lo stesso tipo di atteggiamento che avrebbero dovuto assumere nei confronti di Dio: non conoscere il mio nome e, se lo conoscevano, non usarlo per chiamarmi. Ciò mi conferiva una certa aura di mistero, permettendomi anche di mantenere la dovuta distanza dagli altri. Dunque conoscere il nome di un uomo significa anche avere potere su di lui. Usiamo sempre un nome per indicare un individuo concreto, quando non è presente. Usando il suo nome, di fatto lo possediamo, e io non volevo essere posseduto da nessuno. Volevo essere libero da qualunque vincolo, che fosse spirituale, morale, psicologico o nominale. Quindi non volevo che il mio nome fosse sulle labbra di alcuno quando non ero presente e, quando invece ero presente, non ritenevo necessario che fossi chiamato per nome. 
E’ questa la fonte da cui è scaturita la mia idea dell’anonimato, anonimato di Dio, anonimato dell‘Io, o della mancanza di un nome per le cose. Se quindi un nome sostituisce in qualche modo chi non è presente, ne consegue che l’assoluta presenza di Dio rende la sua mancanza di nome una conseguenza logica. Ciò che è sempre presente non ha bisogno di avere un nome. Pertanto, credo che volessi assumere le prerogative della divinità rispetto alla mancanza di nome.
Quando avevo quattordici anni mio padre cominciò a fallire in numerosi affari e ogni volta i miei zii intervennero per tirarlo fuori da qualche cattiva speculazione. Zio Markus e zio Jancu divennero sempre più parte integrante del sociogramma della nostra famiglia. Più erano coinvolti in questi affari, maggiore era l’alienazione tra i miei genitori.
L’ultimo grande tentativo che mio padre fece per tenere unita la famiglia, e riguadagnare il ruolo di capo famiglia e di chi guadagna il necessario per tutti, fu di trasferirci da Vienna a Berlino (6). Credo avesse in mente di andare anche più lontano, ossia in America. Una prova della sua devozione nei miei confronti e del desiderio di aiutarmi a sviluppare le mie capacità e offrirmi ogni opportunità per continuare la mia educazione, fu il fatto di assumere un precettore per insegnarmi il latino e prepararmi all’esame per accedere alla quarta classe del ginnasio di Berlino. Era un grosso sacrificio perché si trovava a corto di soldi, ma rappresentava un segno di quanto credesse nelle mie capacità.
Tornai a Vienna (7) con pochi fiorini in tasca. Presi in affitto una stanza presso la famiglia Hindler, non troppo lontano dal ginnasio, una stanza enorme, senza finestre. Il costo era piuttosto basso, e lo pagavo lavorando come precettore delle due figlie, di nove e undici anni. I genitori lavoravano durante il giorno, e io rimanevo con le bambine quando tornavano a casa dalla scuola, a mezzogiorno.
Il mio lavoro di precettore fu un successo. Ebbi subito un gran numero di clienti facoltosi, due pasti al giorno in ciascuna casa, il tè alle cinque e la cena alle sette. Ricevevo anche dieci fiorini a lezione.
Berlino non portò a mio padre alcuna fortuna. Come al solito ebbe un magnifico inizio. Fondò una società con un fabbricante di bare e sudari per i funerali, con icone e altri oggetti necessari ai riti ortodossi. Venivano esportate nei Paesi balcanici e nel Vicino Oriente, ovunque ci fossero cristiani ortodossi. Mia madre diceva che vendeva migliaia di bare e di sudari, tanto che era di nuovo fiducioso che la prosperità fosse dietro l’angolo.
Intervenne però la polizia di Berlino, essendo scaduto il permesso della mia famiglia, una sorta di visto. Le autorità rifiutarono di rinnovarlo e la nostra famiglia fu inserita nella categoria degli “stranieri indesiderati”. Per questa ragione ci trasferimmo in un’altra città tedesca, Chemnitz, dove le regole della polizia erano meno severe.

NOTE

1. L’iscrizione di Moreno all’Università di Vienna nel 1914 lo indica di nazionalità turca, in base a quella del padre piuttosto che al luogo dl nascita. Questa era la pratica del tempo.
2. Letteralmente “Figlio del Precetto”. Cerimonia religiosa ebraica che ha luogo quando i ragazzi compiono tredici anni e raggiungono la maggiorità religiosa. Il ragazzo entra a far parte del mondo degli adulti e può partecipare alla lettura pubblica della preghiera nella sinagoga.
3. Dolce nazionale turco.
4. Nel corso di un viaggio a Calaresl sul Danubio all’età di undici anni Moreno contrae la malaria.
5. Moreno usa questa espressione per riferirsi al giudaismo comune nell’Europa centrale ai tempi della sua infanzia.
6. Probabilmente nel 1903 o 1904.
7. Dopo tre settimane a Berlino, i genitori di Moreno decidono di farlo tornare a Vienna. Non si sentiva a suo agio a Berlino e pensava di potersi mantenere a Vienna facendo il precettore.

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