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PREMIO TURANDOT di Ottavio Rosati

Dedico questo premio a Fernanda Pivano che ieri ha partecipato, nel ruolo di Turandot, al nostro sociodramma e che per la seconda volta mi accompagnato al Festival a Torre del Lago col suo grande amore per la musica. Dal 1974 non si contano le edizioni di questa opera che abbiamo visto insieme tra Caracalla, Verona, La Scala e altri teatri estivi come questo e lo Sferisterio di Macerata. Chi di voi conosce personalmente la signora Pivano sa che la sua cultura letteraria e musicale è arricchita dal fascino della sua voce. Lei non parla: suona le parole come note al pianoforte.
Dunque, grazie al maestro Bussotti per questo premio speciale e grazie a Fernanda che mi fatto perdere la testa, senza tagliarmela. (O. R.)

UN PREMIO PER TRE

Sia nello psicoplay che nel suo scritto del 1983 Ottavio Rosati legge l'opera di Puccini attraverso il concetto junghiano di Anima che Puccini articola tra la spietata principessa e il rassicurante personaggio della povera Liù. Tutto intorno l'atmosfera di Torre del lago è piena di Spontaneità: il piano del Gioco si combina a quello dell'Arte e dell'Erotismo. Il villaggio, tra il lago di Massaciuccoli e il mare di Viareggio, gronda di musica, sex appeal e gioia di vivere. 
Alla fine del Festival e del convegno del 1983 il direttore artistico, Sylvano Bussotti, assegna un suo personale premio Puccini "fuori scatola" a Rosati dicendogli che gli è sembrato un personaggio in tre parti, come le maschere di Ping, Pang e Pong, ministri della principessa. Caso vuole che Ottavio abbia 33 anni e Fernanda 66.
Ping. Il primo ruolo con cui Ottavio Rosati (in compagnia di una Fernanda Pivano bella, elegante e felice) segue il Festival di Torre del lago è quello di critico lirico della AGL con cui finanzia le sue vacanze musicali in camera doppia in giro per l'Italia dei festival, da Spoleto a Macerata, da Pesaro a Martina Franca.
Pang. Il secondo ruolo è quello di psicoanalista che, al convegno 'Esotismo e colori locali nelle opere di Puccini', presenta all'ultimo momento la relazione "Clinica Turandot" basandosi solo su qualche appunto preso al volo. Ciò che lo interessa nel profondo è che il terzo atto di Turandot rimase incompiuto come quello de 'I giganti della montagna' di Pirandello. Forse Puccini morì perché non trovò la musica necessaria a trasformare la principessa algida e narcisista in una donna innamorata? Fatto sta che il grande amore espresso da Puccini nella musica di Turandot resta quello di Calaf e per Calaf: il mio segreto è chiuso in me, il nome mio nessun saprà. Come prova l'enorme, inestinguibile successo della romanza.
Pong. Il terzo ruolo di Ottavio quello di psicodrammatista che, a Villa Puccini, coinvolge amici, musicologi e critici in un breve socioplay musicale fuori programma dove la Pivano interviene suonando il pianoforte ma, quando Simonetta Puccini le chiede di fare il ruolo di Turandot, ride: "Io, Turandot? Ma io non ho mai tagliato la testa a nessuno spasimante!"
Senza sospettare che molti anni dopo avrebbe avrebbe tagliato, in testa e coda dei suoi Diari, il nome di Ottavio e trenta anni vissuti insieme. (Clicca qui per l'ipertesto 'Quattro decenni di plays')


La foto di Fernanda bambina fa parte dell'album di famiglia che Mary Pivano regalò a Rosati quando le fece visita a Bogliasco. © PLAYS


Intervento tratto dal volume "Esotismo e colore locale nell'opera di Puccini"
(Atti del primo Convegno Internazionale sull'opera di Puccini) a cura di Jurgen Maehder
Guardini Editori in Pisa per il Festival  Pucciniano 1983.

Gli approcci di tipo psicoanalitico all'opera lirica generalmente finiscono per risolversi in interpretazioni del dramma nel melodramma, in accordo con la tradizione fondata da Freud che riteneva i classici greci i suoi maestri mentre era piuttosto indifferente alla musica. Tutto ciò che Freud ci ha lasciato sulla musica, anzi sull'opera lirica, è una vivace lettera ai suoi familiari del 1907 dove descrive e commenta una rappresentazione della Carmen al Teatro Quirino di Roma 1.
Quanto a Jung parla chiaro l'aneddoto riportato da Kàrol Kerény: la sera che il Professore si recò a teatro ad assistre ad una rappresentazione di Orfeo ed Euridice la cosa venne considerata dai concittadini come un evento eccezionale. Tuttavia Jung entrò in una breve schermaglia con uno dei più originali pionieri della psicoanalisi, Sandor Ferenczi, proprio a proposito della musica. Ferenczi ha costellato tutta la sua opera di piccole osservazioni sulla musica, alcune delle quali sottili ed originali. Senza contare che, nello sviluppo della 'analisi attiva' (cioè di quella forma di psicoterapia analitica che l'avrebbe portato a dissentire da Freud circa l'atteggiamento astinente e distaccato del medico verso il paziente) Ferenczi fece anche uso della musica, anticipando in qualche modo le soluzioni della musicoterapia. La polemica «musicale» tra Ferenczi e Jung scoppiò a proposito della frase in una delle prime pagine di Trasformazioni e simboli della libido, in cui il caposcuola della psicologia analitica aveva affermato:

«Sebbene non possano più sussistere dubbi circa l'origine sessuale della musica, sarebbe una generalizzazione priva di valore e di cattivo gusto il voler comprendere la musica nella categoria della sessualità. Una terminologia del genere porterebbe a trattare il duomo di Colonia nel capitolo della mineralogia per il solo fatto di essere costituito di pietre.» 2

Ferenczi non comprese il senso della precisazione di Jung, che mirava solo a sottolineare che il vero oggetto di indagine psicologica dovrebbe essere la natura dei processi e dei prodotti di sublimazione, e gli rispose:

«II duomo di Colonia non ha cessato, nel momento in cui è stato edificato di essere veramente di pietra per esistere ormai solo come idea artistica.» 3

D'altra parte Ferenczi fu il primo e il solo psicoanalista ad aver osservato che «le leggi dell'associazione musicale dovrebbero essere stabilite da un musicista esperto di psicoanalisi» (piuttosto che da psicoanalisti esperti di musica). Credo che quest'ultima osservazione di Ferenczi finisca per ribadire in qualche modo la vecchia frase di Jung circa il duomo di Colonia inopinatamente trascinato in questioni che non lo riguardano. Da allora molte pagine psicoanalitiche hanno sondato il regno della musica senza arrivare a conclusione particolarmente illuminanti e qualche volta sfiorando la metafisica pura. Tra i vari studi meritano di essere ricordati quello di Paul Germain comparso sulla Revue Française de Psychoanalyse nel 1928 o il libro di Andre Michel del 1951 Psychanalyse de la Musique dove la psicologia genetica dell'es, secondo Freud, è utilizzata per stabilire delle connessioni tra il carattere e il lavoro dei compositori.
Secondo Michel, per esempio, Stravinsky sarebbe tirannico e intollerante, avrebbe un disgusto esagerato per i cattivi odori giacché la sua musica trasmette le componenti anali in ritmi aggressivi, armonie crudeli e nella predilezione per gli strumenti a percussione.
In polemica con la psicoanalisi classica, ma pur sempre all'interno dei suoi schemi concettuali, Michel sostiene che la musica ci insegna a ridimensionare il primato del pensiero razionale e concettuale. Infatti la mente musicale, a differenza di quella concettuale, sarebbe in grado, nella polifonia, di svolgere simultaneamente e coscientemente - nella polifonia - diversi compiti.
Più recentemente Heinz Hohut (1913-1981), autore di un importante e controverso rinnovamento dello schema concettuale della psicoanalisi classica, ha dedicato varie osservazioni al fenomeno musicale. Kohut ha sviluppato una psicologia del sé interessata ai disturbi narcisistici della personalità in cui ha rilievo centrale il concetto di empatia. La cosa non è priva di rapporti con i suoi studi sulla musica alcuni dei quali riguardano il piacere di ascoltarla oltre che di comporla 5.
Più recentemente ancora (nel dicembre del 1983 dunque quattro mesi dopo il convegno di Torre del Lago Puccini, dell'agosto 1983) Franco Fornari ha pubblicato l'interpretazione analitica, di due opere italiane Ernani e Turandot6 che diventa possibile segnalare soltanto ora, mettendo in ordine nel 1984 per la loro pubblicazione questi appunti sulla lettura psicoanalitica di Turandot.
Il libro di Fornari è aperto dall'esposizione di un modello generale di interpretazione della musica e del melodramma le cui radici andrebbero rinvenute nella nostalgia dell'adulto per il paradiso prenatale di armoniosa indifferenzazione intrauterina con il corpo materno. Prima di nascere il bambino fluttua in un bagno di suoni e pulsazioni, palpiti e ritmi viscerali che si prolungherà, dopo il parto, nell'esperienza della poppata musicata dai battiti del cuore materno. Secondo Fornari è funzione della musica ripristinare per l'adulto queste esperienze primarie di sonorità paradisiaca.
Una delle caratteristiche del libro di Fornari è dunque di considerare l'aspetto musicale, oltre che quello teatrale, dell'opera lirica. Tuttavia Fornari, quando si concentra sull'opera di Puccini, lo fa come su un testo teatrale in quanto da attenzione ai dettagli del libretto. Il fatto che Puccini nella stesura della musica esercitasse una continua influenza sulla redazione del testo fa comunque in modo che l'ermeneutica di Fornari non valga solo per l'intervento di Simoni ma per la Turandot globalmente intesa. Questa omologazione Puccini-Simoni del resto era già stata presa come assunto a Torre del Lago per le osservazioni di Lynn Snook e per questo mio intervento.
Le presenti note improvvisate nel corso del convegno su Puccini e l'esotismo hanno il difetto di prescindere, per mancanza di competenza, non di amore o convinzione, dall'universo musicale. Mirano a proporre alcune considerazioni di carattere psicoanalitico nel senso della psicologia degli archetipi fondata da C.G.Jung, non di quella della relazione madre-bambino fondata da Melanie Klein e sottintesa al libro di Fornari7.
Queste mie note mirano a commentare Turandot dal punto di vista del suo libretto e del vero e proprio atto mancato di Puccini che, come è noto anche al grande pubblico, non potè musicare il finale della sua ultima opera. Si tratta di brevi considerazioni a latere che non ambiscono a una totalizzazione del senso dell'opera che a mio avviso è suscettibile di una serie pressoché infinita di commenti e letture analitiche e psicoanalitiche.
Non tutti gli studiosi di psicologia del profondo infatti sono convinti che il loro approccio ermeneutico sia esaustivo e possa liquidare definitivamente l'oggetto della loro indagine. Chi scrive parte del presupposto che il numero di interpretazioni (tutte possibili e tutte parziali) di un testo sia indecidibile nel caso dell'interpretazione psicologica così come nel caso dell'interpretazione artistica da parte del direttore d'orchestra, dei cantanti e del regista.
Ascoltando la relazione di Lynn Snook mi pareva di cogliere nelle sue parole qualcosa di familiare al mio lavoro di psicoanalista particolarmente interessato allo psicodramma ed allo studio dell'esperienza teatrale. Ho poi saputo che la signora Snook lavora nel teatro come Dramaturg consulente mettendo in rapporto le conclusioni della psicologia del profondo con i protagonisti del dramma e del melodramma, a tutto vantaggio degli spettatori e dei realizzatori dello spettacolo. Lynn Snook ha dunque arricchito i lavori del convegno di un excursus storico-letterario sulle varianti dell'archetipo Turandot. La fiaba è stata da lei amplificata (per usare l'espressione gergale della scuola di Jung) seguendo le variazioni del tema in cui per l'eroe è cosa molto difficile, ma pure irrinunciabile, muovere alla rischiosa conquista di una principessa crudele e sanguinaria.
Lynn Snook ha dunque parlato a proposito di Turandot di Anima. Vorrei perciò sottolineare la speciale accezione di questo termine nel linguaggio della psicologia analitica, cioè di quel filone della psicoanalisi che deve i suoi speciali presupposti al pensiero di C.G.Jung. L'espressione Anima (la cui grafia prevede gergalmente una A minuscola) va distinta da quella di anima carica di implicazioni religiose soprattutto se di matrice cristiano cattolica.
Jung e i suoi allievi, tra cui James Hillman, Marie Louise von Franz, E.Berline, utilizzano la parola Anima per alludere ad un'ambigua regione della psiche che confina con diverse istanze senza identificarsi in nessuna di esse: l'eros, il sentimento, il femminino, la fantasia, lo spirito...
Jung da parte sua fa ampio ricorso alla letteratura alchimista, alla mitologia e alla filosofia per dare diverse descrizioni dell'Anima come archetipo di importanza centrale nella vita psichica8. Viene così posto il problema dell'ambiguità del concetto di cui a tratti è sottolineato il carattere scivoloso e regressivo, a tratti il potere salvifico. Esistono infatti dei casi in cui la mitica e imprendibile fanciulla si pone come guida e tramite al mondo inferiore come descritto nella Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna o nel Faust di Goethe. Ciò non impedisce che delle varie concezioni dell'Anima la più nota si quella per cui essa costituirebbe l'aspetto controsessuale dell'uomo, la sua femminilità rimossa, fondata geneticamente sull'esperienza psichica di sua madre che concorrerebbe a condizonarne il carattere più o meno favorevolmente.

L'Anima costituirebbe così l'immagine base di ogni esperienza che l'uomo ha della donna, almeno fin quando le nozioni di uomo e donna, coscienza e inconscio, vengono intese antiteticamente come coppie polari. È superfluo osservare che questa tendenza alla polarizzazione è molto più giustificata nel contesto storico culturale in cui operava Jung (la Svizzera degli inizi del secolo) di quanto non lo sia oggi in una metropoli europea o americana.
A proposito della concezione di Anima come sindrome dai tratti arcaizzati «femminili» è utile ricordare un'osservazione di James Hillman, principale esponente di quella derivazione della psicologia junghiana che viene chiamata «psicologia archetipica». Secondo Hillman la descrizione unilaterale dell'Anima come complesso sintomatico responsabile di confabulazioni e difficoltà d'ogni genere nella vita dell'uomo, sarebbe ormai superata perché legata a un periodo storico rigidamente patriarcale, puritano e volontaristico come quello di Freud e Jung. Questa descrizione dell'Anima cioè non dovrebbe essere presa per una definizione assoluta:
«Anche se l'Anima esagera e mitologizza, la sua influenza sui rapporti emotivi si manifesterà in modo diverso e sarà governata da altri miti oggi che l'interiorità dell'anima e la controsessualità sono de rigeur. Il compito è scoprire quali descrizioni le si addicano nella nostra epoca e quali miti essa crei attualmente»9.
Sempre Hillman ha osservato che oggi, più di quarant'anni fa, è possibile rinvenire tra gli uomini un tipo di coscienza Anima non fragile e arcaica ma molto evoluta. È il caso dell'uomo di teatro, dell'artista, dell'arredatore, del diplomatico, dello psicologo che possono benissimo non mostrare tratti controsessuali indifferenziati e compulsivi e conservare inalterate tutte le funzioni proprie dell'io, nonostante la loro sensibilità animica.
Questa prima nozione di Anima come controparte dei valori coscienti maschili (di cui sono portatori Calaf e i tre saggi da fiaba: Ping, Pang, Pong) la vede come principessa o creatura di fiaba «seduttrice, affascinante, possessiva, volubile, sentimentale» che «intensifica, esagera, falsifica e mitologizza tutti i rapporti emotivi». L'Anima contrasta l'identificazione lineare, coerente e sicura dell'uomo medio nel suo ruolo culturale ufficiale, basato sui valori di ordine, logica, forza e indifferenza al sentimentalismo, al capriccio, alla fantasticheria che sarebbero invece appannaggio del femminile. Uno dei corollari di tale visione di Anima è che, quanto più rigidamente l'uomo si identifica in maniera unilaterale ed esclusiva con la sua identità e il suo ruolo (che Jung chiama la Persona, cioè la maschera), tanto più egli relegherebbe la dimensione dell'Anima nell'inconscio a scapito di una sua maturazione.
A questa scotomizzazione dell'Anima corrisponde, secondo Jung, la tendenza a proiettarla sulla donna nel tentativo di scaricare altrove l'inaccettabile fardello. Ma vi corrisponde pure la demonizzazione dell'istanza psichica stessa lasciata senza interlocutore né possibilità di sviluppo. Si tratta di quell'esito catastrofico descritto in un celebre racconto di Heinrich Mann, Professar Unrat da cui fu tratto il celebre film L'Angelo azzurro con Marlene Dietritch. Il rigido e rispettabile prof. Unrat soccombe fino alla rovina al dominio fatale di una cantante di cabaret, non tanto a causa della natura capricciosa di lei quanto per aver su di lei proiettato quella istanza animica sempre rimossa e mai integrata nel corso della sua vita. La conclusione amara del racconto di Mann è opposta a quella illustrata nel mito di Turandot dove Calaf, l'eroe solare, conquista alla fine la sua lunare principessa ostile riuscendo ad annetterla in simboliche nozze regali.
L'elaborazione vittoriosa dell'Anima come complesso a forte tonalità affettiva è opera straordinariamente difficile. Si tratta infatti di integrarla senza restarne invischiati, senza cioè perdere la testa come capita al povero Principe di Persia, impresa questa che richiede a Calaf una speciale combinazione di intelletto e di amore, di attrazione e di forza. Nessuna meraviglia dunque che Calaf trovi scarso incoraggiamento da parte dei depositari del buon senso comune. In un'altra occasione, credo durante un'intervista, dovendo definire velocemente cosa intendesse per Anima, Jung se la cavò dicendo: «La nostra Anima è ciò di cui gli altri ridono».
Per mostrare il carattere tragicamente «risibile» ma pure incoercibile dell'esperienza animica vorrei citare un breve documento psicologico ricavato dalla mia attività clinica. Si tratta di una poesia dilettantesca, e dunque ispirata, in cui è facile riconoscere la dimensione archetipica e stereotipica dell'emozione, sovrapposta alla sua pretenziosità individualistica. Distintivo di tale stato è un atteggiamento apparentemente proteso verso l'eros ma sostanzialmente lunare e narcisistico. Questi versi furono scritti da una ragazza «per» il suo giovane innamorato. La poesia infatti si intitola Tu anche se, in accordo alla logica dell'Anima, non sembra tanto descrivere l'oggetto amato quanto piuttosto il riflesso di questo oggetto sull'autore.  
Inutile aggiungere che la composizione rientra in quel genere di poesie che, nell'imbarazzo dell'ascoltatore, vengono recitate entrando in uno stato di coscienza alterata, assumendo un atteggiamento semi estatico da grandi occasioni, con tono di voce ispirato giacché si tratta di penetrare in una serra di ineffabili prodotti di un giardinaggio misterico e privilegiato. La poesia cioè rientra nel regno dell'Anima:

Mia delizia e mio tormento
mia salvezza e mia perdizione
chi sei?
Sei la vita che mi scorre dentro,
quando ascolto le tue mani,
parlo con i tuoi occhi,
mi nutro del tuo tenero e caldo sorriso,
preludio di magióne, e sempre nuove felicità.
Ecco chi sei,
ecco cosa sei:
non sei altro che la mia vita.
Sei la vita che mi scorre dentro.

Dopo il terribile documento clinico passiamo a una sintetica documentazione letteraria. Un'eccellente descrizione del sentimentalismo scivoloso e micidiale dell'Anima è fornita da Flaubert che, senza esser psicologo, era al corrente di molti segreti dell'inconscio («La Bovary c'est moi!»).
In Madame Bovary il distacco di Rodolphe da Emma viene spiegato con le dichiarazioni appassionate e stereotipe di lei. Come un cronista Flaubert descrive l'eterna monotonia della passione destinata a non cambiare mai forma né linguaggio. Dopo aver annunciato al lettore che Rodolphe inizia a fare la tara sui discorsi esaltati dell'amante sapendo che coprivano affetti mediocri, Flaubert ci fornisce ironicamente un proprio commento. Ed è non poco interessante che a questo punto egli faccia ricorso a una metafora dove il regno della parola scivola in quello della musica:
«On en devait rabattre, pensait-il, les discours exagérés, cachant les affections médiocres: camme si la plénitude de l'àme ne débordait pas quelque fois par les métaphores les plus vides, puisque personne, jamais, ne peut donner Vexacte mesure de ces besoins, ni de ces conceptions ni de ces douleurs, et que le parole humaine est camme un chaudronfèlé où nous battons de mélodies a faire danser les ours, quand on voudrait attendrir les étoiles» 10.
Nella sua disamina del concetto di Anima negli scritti di C.G.Jung e della sua scuola, Hillmann tra l'altro ha descritto l'archetipo in questione differenziandolo da altre istanze e categorie con le quali rischia abitualmente di essere confuso e collegato. Per capire infatti cosa si intenda con un complesso occorre precisare cosa il complesso non è. Principalmente l'Anima non è l'Eros né il sentimento con cui è abitualmente identificata.
Arbitraria ma diffusa è pure la convinzione che quella dell'Anima sia un'esperienza esclusivamente maschile dato il suo pericoloso carattere controsessuale. Di fatto un archetipo in quanto tale non costituisce certo appannaggio di uno solo dei due sessi e non occorre guardarsi troppo in giro per scorgere identificazioni regressive nell'Anima anche tra le donne. Questa fenomenologia va dal tipo fatale/diabolico che evoca le spire di una fascinazione estetica di cui resta lei stessa prigioniera, fino ai casi di pseudo-religiosità ispirata che scivolano in deliri redentori dove per la salvezza dell'Anima è autorizzata ogni nefandezza.
A conferma del carattere 'bisessuale' dell'Anima che la rende appannaggio tanto degli uomini che delle donne vorrei ricordare un frammento clinico di un seminario di psicodramma. Come è noto lo psicodramma è una forma di psicoterapia nella quale i partecipanti sono messi in condizione di esprimere ed elaborare le proprie fantasie inconsce non solo attraverso le parole (come accade nel setting psicoanalitico) ma anche attraverso i cosiddetti action methods, cioè esprimendosi con la massima spontaneità possibile attraverso il corpo, i timbri di voce, la musica, la drammatizzazione e il gioco in genere.
La storia psicodrammatica che sto per raccontare ebbe luogo nel corso di un workshop di psicodramma al quale prendeva parte una donna di circa quarant'anni, laureata in medicina, estremamente elegante e seduttoria, per di più appassionata danzatrice per diletto. La paziente chiese di realizzare il suo psicodramma a proposito della Turandot perché era capitato che il suo atteggiamento fascinatorio, ma gelido e sostanzialmente ostile all'uomo, mi avesse portato in qualità di psicodrammatista a citare l'opera di Puccini che del resto la paziente conosceva e amava molto. La sua richiesta venne dunque accettata, come di regola nello psicodramma, e invitai la paziente a scegliere il modo in cui avrebbe realizzato il suo psicodramma: messa in scena di un sogno su Turandot, o di una sua fantasia sul tema, o recita di una parte della fiaba...
Decise di interpretare Turandot ballando davanti al gruppo al suono della scena dei tre indovinelli con illuminazione opportuna e dopo aver assegnato ai componenti del gruppo i ruoli di Calaf, dei tre ministri, del popolo, e dell'imperatore (Liù ed altri personaggi non vennero presi in considerazione dalla paziente). L'ego ausiliario (cioè l'interprete nel gruppo) cui venne affidato il ruolo di Calaf sarebbe stato libero di improvvisare la sua risposta mimica nel corso della danza.
E probabile che questa descrizione del setting psicodrammatico lasci perplesso uno psicoanalista ortodosso. Di fatto lo psicodramma mette in funzione l'emisfero destro (quello eidetico / inconscio) del cervello, sospendendo temporaneamente l'atteggiamento critico e logico dell'emisfero sinistro. Appunto a tal scopo si fa ricorso al gioco, al teatro, alla musica11.
La paziente si abbandonò con voluttà alla sua danza silenziosa che naturalmente aveva qualcosa in  comune con quella della Salomè di Wilde. Dopo pochi attimi parve entrare in uno stato di coscienza alterata, di ripiego narcisistico ma di irresistibile richiamo sul suo interlocutore. L'espressione del volto, la tensione della pelle si fecero serpentine e melodiose e più che un medico la donna parve a tutti una ballerina di professione. Il giovane giornalista radiofonico che era stato chiamato a gestire il ruolo di Calaf era un soggetto con non pochi problemi di natura animica compensati da un intellettualismo manicheo. Di fronte a Turandot si fece pallido e cercò rifugio e difesa in una strategia di movimento di notevole spessore simbolico: cercò cioè di localizzarsi il più possibile tra la protagonista dello psicodramma e i riflettori che poggiavano su degli stativi intorno alla scena. Così facendo, a denti stretti e pugni serrati, egli cercava di coprire affannosamente Turandot con la sua ombra. La manovra non sfuggì alla compagna che, volteggiando estatica, tentò continuamente di rovesciare i termini del gioco. Si era cioè realizzata, al di là di ogni considerazione intellettuale e metaforica, una battaglia disperata per includere distruttivamente l'altro nella zona scura e regressiva della propria personalità, secondo una strategia difensiva inconscia che nella scuola fondata da Jung sarebbe definita come proiezione dell'ombra.
C'è un altro momento di quello psicodramma cui mi venne fatto di tornare allorché lessi il libro di Fornari e le sue interpretazioni basate sul mistero materno di Turandot. Quello in cui un secondo interprete del ruolo di Calaf (con cui la soluzione dei tre enigmi venne 'giocata' una seconda volta dalla paziente con esito più soddisfacente), le andò incontro, non camminando o danzando, ma strisciando su quattro zampe come un bambino. Il compagno di gioco si incuneò con ansia, ma pure forza, attraverso il cunicolo di una scrivania, come se attraversasse un utero temibile per poi nascere e trovare il suo oggetto d'amore finalmente accessibile e conquistato.
Mi rendo conto che con questo esempio ho introdotto nel discorso gli speciali problemi rappresentati dall'utilizzazione della musica e del melodramma in psicoterapia e psicodramma. Non è però questa la sede per approfondire il tema e credo sia opportuno tornare alla breve rassegna della letteratura di scuola junghiana sul tema dell'Anima.
In particolare Hillman ha tracciato in una prospettiva neo-platonica una notevole descrizione dell'iter che può portare il soggetto dall'esperienza perturbante dell'Anima a quella salvifica della Psiche. Al tema egli ha dedicato il libro The Myth of Analysis dove indaga il mistero della creatività psicologica, l'eros socratico e la femminilità psicologica. Alcune delle precisazioni di Hillman ci possono essere di aiuto a proposito del rapporto Calaf-Turandot per ricordare come nella fenomenologia mitica l'Anima non appaia simile all'eros anche se la sua inclinazione è verso l'amore. Come Turandot l'Anima seduce per essere accesa, incendiata, illuminata. L'Anima emerge per consolidare la pura riflessione in connessione. Hillman osserva che «l'Anima ha a sua disposizione un'incredibile serie di immagini voluttuose per attirare a sé l'eros, per compiere ciò che Platone chiamava generazione ossia il fare anima. L'Anima non è però amore anche se l'amore le è indispensabile, anche se è attraverso l'amore che si accoglie l'anima».
Il curioso dell'Anima è dunque che non esista un manuale di istruzioni per il suo uso corretto. La fenomenologia delle canzonette, come quella alchemica, mostrano che i danni recati dal trionfo dell'Anima sono altrettanto gravi di quelli causati dalla sua sistematica negazione.
L'esperienza dell'Anima è in ogni caso inevitabile, irrinunciabile.
Non a riprova, ma a proposito della concezione dell'Anima come istanza suscettibile di demonizzazione nei casi in cui la coscienza o i valori collettivi pretendono di respingerla fuori dai loro confini, vorrei narrare ora un sogno. Non ritengo che questo sogno sia comprensibile solo attraverso l'ermeneutica animica. Credo semplicemente che si possa anche prestare a chiarire quante diverse articolazioni possano darsi del rapporto tra la fanciulla e i suoi pretendenti.
Il sogno fu portato in analisi da un giovane insegnante, depresso e iper-razionalista che al momento era sprovvisto della forza e della intraprendenza dell'eroico Calaf di fronte alle irruzioni della sua stessa femminilità inconscia. Era però decisamente giunto il momento in cui si imponeva per lui un'opera di ricognizione (se non di conquista) della sua acerba sensibilità emotiva. Nel sogno l'io onirico veniva informato che in un'isola era stata confinata una fanciulla malridotta e imbastardita dalla mancanza di educazione e contatti, quasi allo stato selvaggio. La notizia era in qualche modo fornita al sognatore da suo padre, un uomo estremamente convenzionale e rigido, convinto di poter risolvere ogni problema dell'esistenza attraverso i suoi schemi di alto ufficiale dell'esercito. Era questo padre (identificatosi al cento per cento nella propria generalizia Persona) a notificare a suo figlio il compito che gli si parava davanti e che avrebbe dovuto risolvere senza il suo aiuto: occorreva con infinita pazienza e forza insegnare alla fanciulla semi inselvatichita nell'isola a leggere e scrivere, fosse pure in ritardo.
Credo che anche questo esempio clinico parli chiaro nel rapporto che corre tra l'io e l'Anima nei casi in cui l'archetipo è rimasto inconscio.
Dopo aver accennato alle ascisse e alle coordinate di questo topos letterario e psichico, resta da accennare alla speciale articolazione che esso trova o esprime nell'ultima opera di Puccini. Le variazioni di un archetipo sono infatti infinite e oscillano tra la massima indeterminatezza e la massima specificità. Chiarito l'archetipo come struttura organizzatrice comune a più espressioni, occorre non perdere di vista la struttura specifica e irripetibile di ogni sua manifestazione.
Tra le varie caratteristiche della Turandot di Puccini e Simoni è lo speciale rilievo che hanno i personaggi di Liù e dei tre ministri Ping, Pong, Pang.
Almeno per lo psicologo è di importanza primaria anche il fatto che l'opera non venne completata dal suo autore che morì, un po' come accadde a Pirandello con  I giganti della montagna, lasciando delle indicazioni su come concludere il lavoro. In entrambi i casi, la grande opera incompiuta affonda le sue radici nella dimensione mitica. In entrambi i casi la parte lasciata incompiuta è il finale.
Il fatto che la morte impedisse a Puccini di musicare il finale dell'opera può essere considerato qualcosa di più significativo che una triste coincidenza. È possibile allo psicologo considerarlo come un vero e proprio avvenimento all'interno della composizione dell'opera. Un avvenimento negativo certo, come quelle allucinazioni dette negative perché portano un soggetto a cancellare, anziché aggiungere, qualcosa dal suo campo visivo. Non è detto comunque che questo avvenimento negativo sia meno importante e significativo della realizzazione del resto dell'opera, dal punto di vista della storia del melodramma.
Toscanini, a quanto pare, fu dell'avviso che Puccini si trovasse alle prese con un compito particolarmente arduo allorché gli confidò durante la composizione dell'opera: «Tu non riuscirai mai a trovare musica per questo finale».
Ritengo che il commento di Toscanini fosse basato sulla constatazione che le innovazioni compositive di Puccini avevano già raggiunto un risultato musicale impensabile per quei tempi. Tuttavia è possibile pensare che il commento di Toscanini agisse come una vera e propria suggestione iatrogena, cioè che aggravasse, anziché alleggerirla o risolverla, l'inibizione nevrotica di Puccini a concludere l'orchestrazione del finale. E quale sarebbe la natura di questa inibizione?
Un'ermeneutica psicologica fondata sulla concezione dell'Anima come archetipo ambivalente tra saggezza e psicosi vedrebbe l'impossibilità di Puccini a orchestrare il finale dell'opera come dovuta alla mancata comprensione e integrazione dell'archetipo da parte del compositore.
Il tentativo di uscire con il libretto di Turandot da una tematica narrativa convenzionale e prevalentemente verista (anche se talvolta profumata di esotismo) sprofondò Puccini, senza guida adeguata, in una dimensione mitologica la cui profondità e i cui echi suggestivi non fu in grado di gestire adeguatamente. Puccini non segue fino all'ultimo passo il cammino vittorioso dell'Eroe Solare che, grazie a un doppio trionfo di natura intellettuale e affettiva, grazie alla combinazione di eros e logos, sintetizza, ricava, estrae dall'Anima la nascita di Psiche. Puccini non fu consapevole (e dubito che potremmo mai esserlo noi a posteriori, disponendo solo di qualche dettaglio della sua chronique scandaleusé) delle ragioni che ostacolavano la sua adesione creativa incondizionata alle nozze con l'Anima dopo quella (che invece gli fu possibile) al trionfo sull'Anima. Quanto a Simoni, egli con il terzetto dei ministri/maschere alluse alla dimensione inibitoria presente nell'archetipo al fianco della coazione ad accettare la sfida di Turandot. Per il resto Simoni era ben lontano dal sospettare dietro il bozzetto fiabesco una moralità complessuale.
Turandot con il duetto di amore e il finale del terzo atto. All'interno della fiaba dove Turandot sarebbe riscattata dall'eroe straniero e potrebbe finalmente gridare il suo amore, torna in conclusione per Puccini il lamento di un uomo per la morte di una donna tanto amata.
L'ultima ad essere operata (oltre che scritta) è la poesia di Liù che si spegne in un gesto dove amore, morte e sacrificio coincidono. Con esito altrettanto mortale anche Puccini viene operato alla gola lasciando incelebrate le nozze di Calaf e Turandot.
Questo «atto mancato» introduce un finale consueto in un minuto che sarebbe stato notevolmente diverso e nuovo per le consuetudìni del musicista e viceversa ribadisce quell'agghiacciante carattere cerimoniale, aspro e crudele che Fedele d’Amico ha evidenziato nell’opera. Carattere cerimoniale, cioè ripetitivo e ineluttabile,  come il decorso extra storico di quella finzione concettuale che sono gli archetipi.
Se davvero Turandot è un'immagine dell'Anima, come queste note propongono, non è Turandot a essere passata nell'opera di Puccini ma è Puccini a essere passato nel regno di Turandot. Non l'archetipo nell'io, dunque, ma l'io nell'archetipo.
Da questo punto di vista, che inverte la prospettiva abituale di comprensione del complesso della psiche oggettiva (l'io nella psiche e non la psiche dentro l'io), qualcosa può essere detto anche sui problemi discussi al convegno di Torre del Lago circa il finale più giusto dell'opera.
I dibattiti raffinati a proposito dei vari finali dell'opera oggi disponibili, o possibili in un futuro prossimo, (quello di Alfano rivisto da Toscanini, quello originale di Alfano senza però le correzioni, quello tronco di Puccini...) potrebbero essere considerati, col sale benefico dell'ironia, qualcosa di più che una pura questione musicologica.
Siamo in effetti penetrati nel regno di Turandot o nella sua clinica se è vero che oggi gli dei andrebbero considerati come malattie.
In questo regno succedono appunto cose di questo genere. La principessa fatale, protagonista di storie dall'esito ambiguo, mantiene la sua indeterminatezza. Turandot come Anima nella sua clinica fa perdere ogni certezza sulla testa e sulla coda e, rendendo impossibile l'ultima parola sul suo conto, si mantiene fascinosamente disponibile a nuove conquiste.


NOTE 

1.   SIGMUND FREUD, Lettere, Boringhieri, Torino, 1960, p. 237.
2.   C.G. JUNG, Simboli della trasformazione (1912), Boringhieri, Torino, 1970.
3.  S.FERENCZI, «Critica di 'Trasformazioni e simboli della libido di Jung», in Fondamenti di Psicoanalisi vol. I, Guaraldi, Firenze, 1972, p. 177.
4.  PAUL GERMAIN, "La musica e la psicoanalisi", 1928; trad. it. in Materiali per il piacere della psicoanalisi, anno 1°, Tip. edit. Pisana, Lucca 1983.
5.  HEINZ KOHUT, The Search For The Self: Selected Writings: 1950-1978, edited by Paul H.Ornstein, International University Press, New York, 1978.
6.  FRANCO FORNARI, Psicoanalisi della musica, Longanesi, Milano, 1984.
7. Chi volesse iniziare lo studio dell'opera, fondamentale per lo sviluppo della psiconalisi, di Melanie Klein può partire dalla lettura del volumetto di HANNA SEGAL, Introduzione all'opera di Melanie Klein, Martinelli, 1968, nel quale troverà un'eccellente bibliografia.
8.  Per non appesantire la bibliografia con i numerosissimi riferimenti al concetto di Anima sparsi nell'opera di C.G.Jung, possono essere segnalati in questa sede i seguenti testi forniti di bibliografie esaurienti:
M.L.VON FRANZ, The Problem of Femmine in Fairy Tales, New York/Zùrich, Spring Publications, 1972.
M.L. VON FRANZ, "II processo di individuazione", in L'uomo e i suoi simboli, Casini, Firenze, 1967, pp. 158-229.
JAMES HILLMAN, Il mito dell'analisi, Adelphi, Milano, 1979.
JAMES HILLMAN, "Anima", in Rivista di Psicologia Analitica 21/80, Astrolabio-Ubaldini, Roma (anche in Spring, 1973).
9.   J. HILLMAN, Anima, op. cit., p. 157.
10. GUSTAVE FLAUBERT, Madame Bovary, in Oeuvres, «Bibliothèque de la Plèiade», Paris, 1936, Voi. 1, p. 500.
11. Sullo psicodramma e l'opera del suo fondatore J.L. Moreno cfr. la voce 'psicodramma' in Enciclopedia del teatro del Novecento (a cura di A. Attisani), Feltrinelli, Milano, 1980 e la rivista «Atti dello psicodramma» dedicata allo psicodramma e allo studio dell'inconscio nel teatro, ed. Astrolabio-Ubaldini, Roma.

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