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INTERVISTA SULL'ATTORE E LO PSICANALISTA di Cesare Musatti

D. Due foto del 1887 del suo album di famiglia ci mostrano Pirandello nella terrazza romana dello zio Rocco a via Ripetta dove sarà ambientato l'episodio centrale de Il fu Mattia Pascal. Luigi è in compagnia di amici con cui improvvisa, secondo il costume dell'epoca, delle scenette teatrali in mezzo a vasi di rampicanti, con qualche sommario travestimento casalingo.

Nella foto che riproduciamo su questa pagina si direbbe travestito da gentiluomo col cilindro, seduto al tavolo di una trattoria con l'oste alle sue spalle...
La foto al fianco di questa pagina invece è del 1915, se non sbaglio. Si tratta sempre di teatro improvvisato tra amici e compagni dì scuola: Cesare Musatti giovanissimo, colla paglietta in testa, ha l'aria di interpretare il ruolo del signore per bene. Quello che colpisce e che faccia compagnia con un gendarme e un ladro: pare una rappresentazione simbolica sul suo futuro ruolo a favore dell'Io tra il Super Io e l'Es...

R. Sì, la foto è del 1915 a Cava dei Tirreni e riproduce una sceneggiata, una recita improvvisata tra tre amici, come nella foto di Pirandello. L'amico al centro truccato da malfattore è Nino Valeri. Quello che dovrebbe essere la guardia è l'altro compagno di liceo, Gigi Pancrazi, fratello di Piero. Io e Nino eravamo andati a Cava dei Tirreni, a trovare Gigi che era sotto le armi...
D. La foto anticipa pure la sua futura breve esperienza di psico-drammatista, cioè di attore a soggetto, sempre in compagnia di amici...
R. Già, insieme a Franco Pomari e qualcun altro ho fatto dello psicodramma tra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Una nostra collega era stata a Parigi a studiare lo psicodramma analitico con Lebovici e al suo ritorno decidemmo di fare un esperimento al Centro Psicoanalitico di Milano. Lo psicodramma è estremamente interessante per gli psicoanalisti. La verità è che la psicoanalisi è uno psicodramma. Quando mi dicono che io ho delle qualità di attore... bé, non è che
io le abbia, ma certo mi piace recitare. Ho il gusto del recitare. Ma questo gusto mi viene da una certa vocazione all'identificazione con le situazioni altrui.
D. Qual è il suo giudizio tecnico sullo psicodramma?
R. Direi che in fondo il sistema migliore di fare psicodramma, anche se più complicato indubbiamente, è quello di farlo con un gruppo di analisti e un solo paziente. Il paziente ha così il suo analista che è anche il regista dello psicodramma. Davanti a lui racconta cosa è successo, cosa gli è accaduto.
È un'esperienza che ho fatto personalmente. Si trattava di una ragazza che aveva tentato il suicidio diverse volte; era molto colpevolizzata perché aveva una madre che doveva essere una rompiscatole, e che d'altra parte era molto ammalata. La madre diceva sempre a questa ragazza "Tu mi farai morire, tu mi farai morire…". Insomma una volta durante una scenata di questo genere la madre disse come al solito "Tu mi farai morire..." e la figlia rispose "E muori una buona volta". La madre morì, lì per lì. Poveraccia, la figlia, che trauma! Dopo, questa ragazza era rimasta sola col padre, molto scombinata, e aveva tentato diverse volte il suicidio. La mandarono da uno psicoanalista che disse "proviamo a fare uno psicodramma". Fu così che facemmo una serie di sedute; la ragazza veniva a raccontare quello che le era accaduto a casa, poi l'analista le diceva "Bene, cosa vuole che recitiamo?" e la ragazza sceglieva una determinata situazione o si accordava con l'analista. Facemmo anche la rappresentazione della morte della madre. Lei, la paziente, non volle recitare, non volle fare la parte di se stessa, e rimase spettatrice. Posso dire che l'unica volta in vita mia che ho creduto mi venisse un infarto, fu mentre recitavo in quello psicodramma. Mi investii della parte in maniera terribile. Dovevo fare il ruolo del padre cattivo e i miei colleghi che assistevano si spaventarono perché mi alteravo, battevo il pugno sul tavolo gridando:  "II padrone sono io!". Capisce?


D. Lei ha detto in più di un'occasione che nello psicoanalista c'è anche un po' il gusto di fare l'attore, cioè che c'è qualche cosa di teatrale  nel  lavoro  psicoanalitico.  A  questo  proposito  vorrei  chiederle:   l'analista,  più che  come  l'attore,  non  lavora forse  come  ilregista? Nel senso che nel suo lavoro deve calcolare pause, tempi, scansioni...
R. Esiste tutta una tecnica a cui l'analista deve restare fedele perché l'analista non fa l'analisi per suo puro divertimento ma fa l'analisi perché c'è una persona sofferente, la quale viene a pagamento e vuole guarire. Le analisi didattiche, per esempio, mi stufano, invece i pazienti che hanno dei guai loro sono sempre più interessanti. Certo anche gli allievi hanno guai perché la vocazione psicoanalitica è nevrotica, però... Ora, oggigiorno, gli psicoanalisti hanno un po' l'abitudine di dire: l'aspetto terapeutico è un aspetto secondario, ma questa è una boutade perché evidentemente l'aspetto terapeutico non può essere secondario, può essere secondario per l'analista ma non è secondario per il povero paziente. È vero però che nel mettere in moto il meccanismo di questo rapporto duale in cui consiste l'analisi, l'analista finisce col fare tutte le parti e quindi in un certo modo l'analista fa l'attore. Fa l'attore con un copione obbligato che gli è dato dalla situazione dell'analisi, dal modo in cui l'analisi procede. Però fa anche l'attore che improvvisa, che deve immaginare la situazione vissuta dal paziente e deve impersonare il personaggio che corrisponde alla vita del paziente. Per cui il paziente dice "Sì, è così, è così". Quindi c'è questo elemento inventivo indubbiamente, ma c'è anche questo elemento di obiettività. Però se noi pensiamo a Pirandello, in Pirandello questi elementi vengono fuori.
D. Per esempio nei Sei personaggi in cerca d'autore?
R. Sì, lì c'è l'autore e c'è il personaggio il quale reclama di essere quello che lui è, indipendentemente dalla volontà dell'autore. Questa è la vera intuizione che ha avuto Pirandello per ciò che riguarda la situazione teatrale, ma che è una situazione abbastanza simile alla situazione analitica.
D. Cioè, nei Sei personaggi in cerca d'autore queste forme chiedono di poter prendere corpo e di potersi esprimere con l'aiuto del capocomico; allora è un po' il capocomico che dovrebbe fare questa funzione maieutica di farle compiere fino alle estreme conseguenze?
R. Sì. Del resto io credo che in ogni opera artistica esista questo fatto, che esista cioè, questo momento della libertà creativa da parte dell'autore, ma che, non appena prende corpo la creatura, la creatura se ne va per conto suo. Io ho già detto che è un po' come i padri e i figli, che è come un rapporto di paternità... i figli se ne vanno per conto loro. Però se ne vanno portando un'impronta.

D. Sappiamo che uno stesso paziente, con diversi analisti finisce per fare inevitabilmente delle analisi, almeno in parte, diverse. Dunque la personalità oltre che la cultura e la competenza dell'analista in qualche modo si combinano con l'emergenza (nel duplice senso del termine) del discorso del paziente. Ma se l'analista è colui che aiuta a strutturare l'emergere dell'analisi in una direzione oppure in un'altra, non finisce in questo senso per essere un po' un autore?


R. Quante "Sante Giovanne" ci sono?
D. Tante quante gli autori che le hanno messe in scena. Certo. Come si può conciliare questo che in fondo è un po' un assunto junghiano, come è espresso nella Psicologia del transfert, con il vecchio mito freudiano dell'obiettività scientifica assoluta e della neutralità dell'analista?
R. Avevano un certo numero di anni di differenza Freud e Jung. Freud è un uomo dell'ottocento che ha aperto le porte al pensiero del novecento; come uomo dell'ottocento ha conservato alcuni elementi, ed è rimasto fedele all'ideale scientifico, all'ideale dell'obiettività. Non è che non si rendesse conto che ogni analista faceva l'analisi a modo suo, che non ci sono due analisti uguali, che l'analisi è un prodotto di collaborazione fra il paziente e l'analista, ma temeva che si alterasse la psicoanalisi concedendo eccessivamente alla personalità, alla soggettività dell'analista. Un altro grosso problema è che gli analisti stanno dimenticando il valore terapeutico dell'analisi. È diventato un problema di secondo piano, è venuto in primo piano il problema conoscitivo. Tra di noi ci possiamo dire queste cose. Resta il fatto che i pazienti vengono e pagano per guarire anche se non si sa in cosa consista poi la guarigione.

D. Secondo Lei è possibile che ci sia un intervento basato sulla verità, che non guarisca e una manipolazione psichiatrica che contiene, teatralmente, delle menzogne, che possa "guarire" dal sintomo?
R. Mah! Tutto è possibile a questo mondo, perché è possibile anche una sistematizzazione fondata su qualcosa di irreale che non da la guarigione ma crea però una stabilizzazione. La verità è che la funzione dell'analisi è quella di maturare la personalità e maturando la personalità si rinvigoriscono le funzioni dell'Io e quindi si rende capace la persona di fronteggiare gli elementi inconsci che agiscono... Ma certo non è questa l'idea primitiva di Freud per cui, scoperto l'inganno, l'individuo guarisce; l'idea cioè che spiegata la causa del sintomo, il sintomo scompare, per carità!... Invece la maturazione della personalità, questo sì è possibile. Questo spiega però l'allungamento dell'analisi.

D. Lei è anche un epistemologo. Se la sentirebbe di affermare che l'esercizio pratico, terapeutico, dell'analisi come terapia, appartiene al registro dell'arte come dice Karl Popper, o ritiene che esso costituisca una vera e propria pratica scientifica?
R. L'una cosa e l'altra, se si ha della scienza un concetto più moderno di quanto lo stesso Freud avesse; noi oggi abbiamo abbandonato completamente l'ideale galileiano della scienza come riproduzione della realtà; la teoria dei modelli introduce la fantasia nella scienza perché i modelli scientifici sono delle costruzioni. Lo stesso Freud nell'ultimo saggio scientifico che ha pubblicato: Costruzioni in analisi - costruzioni, non scoperte di dati, ma costruzioni! - ha introdotto questo elemento creativo che c'è nell'attività analitica, lo direi che questo saggio è proprio il suo testamento. Ho gli originali dell'ultimo fascicolo pubblicato in Austria nella "Internationale Zeitschrift Fur Psychoanalyse" dove c'è Analisi terminabile e interminabile e Costruzioni in analisi del '37, cioè due mesi prima che arrivassero le truppe in Germania, quindi anche Freud parla di costruzioni. Una volta l'idea che Freud aveva, era un'idea archeologica della psicoanalisi: lo psicoanalista è come l'archeologo il quale va a rintracciare nella città sepolta


i singoli frammenti e ricostruisce. Queste ricostruzioni hanno la pretesa dell'obiettività, ma viceversa, in quello che è l'inconscio degli uomini noi costruiamo dei modelli. Quindi il concetto dei modelli nella scienza Freud lo aveva afferrato, un concetto comune oggigiorno per cui non ha più senso dire: è vero questo o è vero quello? Un modello va bene per un certo verso e poi se non va più bene si butta via, se ne fa un altro, perché la realtà è molto più vasta della realtà visibile e quindi non si può ridurre tutto alla realtà visibile. Nel passato c'era la meccanica classica in cui si può disegnare tutto, ma già la scienza della fine dell'ottocento con l'elettromagnetismo e poi la teoria delle radiazioni, la teoria della luce hanno portato assai lontano... Le cose non sono più visibili e quindi bisogna inventare dei modelli. Ora in campo psicologico questo vale ancora di più; dentro la testa di uno non si può entrare, allora è necessario costruire determinati modelli di funzionamento dell'apparato psichico. Freud non credeva mica che quei disegnini che faceva col Super-Io di sopra e l'Es di sotto, fossero granché. Son pupazzi, son pupazzi con i quali si cerca di esprimere determinati rapporti, però non bisogna prenderli sul serio.
D. Lei pensa che, nel loro intimo, la maggior parte degli analisti, di scuola freudiana, siano convinti di lavorare un po' sul piano dell'arte, oppure che cullino ancora la piacevole illusione di essere sempre e comunque degli scienziati?
R. Ma sono degli scienziati, solo che sono scienziati in un senso moderno della parola e quindi con tutta la consapevolezza dei limiti che ci sono. Guardavo l'altro giorno un programma che c'è per i se-minari multipli che dovremmo tenere a Bologna, per la fine del mese; c'è un po' questo gusto dell'ermetismo che noi critichiamo in Lacan, perché il linguaggio di Lacan è oscuro, però adesso stanno parlando un linguaggio oscuro tutti; forse per dire delle cose nuove, sarà!... Per non dire sempre le stesse cose, vengon fuori queste invenzioni di linguaggi...
D. Lei come spiega psicologicamente il successo che riscuotono i linguaggi oscuri?
R. Avendo a che fare con una realtà che è di per sé poco limpida, la gente crede che nel linguaggio oscuro sia contenuta più verità che nel linguaggio chiaro, mentre è un errore perché quando il linguaggio è oscuro, vuoi dire semplicemente che le idee non ci sono. In fondo qui Benedetto Croce aveva ragione. Io sono passato, data la mia età, quando avevo sedici o diciassette anni, attraverso il crocianesimo, poi l'ho superato, ma questo almeno me ne è rimasto, perché Croce aveva in questo ragione: chi scrive oscuro non ha idee chiare.
D. Potremmo dire che chi accetta teorie analitiche oscure lo fa perché vuole restare in un campo inconscio e oscuro? Potrebbe esserci un aspetto difensivo?
R. C'è anche la civetteria dell'oscurità.

D. Questo da parte di chi la esprime, ma da parte di chi l'ascolta, l'oscurità, e la applaude ci potrebbe essere un aspetto difensivo?


R. Certo, perché c'è un po' l'identificazione. Pensiamo al successo di Lacan, per altro transitorio... parlavo l'altro giorno con un collega francese che mi ha detto "lei Lacan c'est fini". In Francia è finito, qui poi abbiamo addirittura qualcuno decisamente peggio, finché dura... Ma è vero, perché il "misterioso" esercita un fascino notevole sulla gente, specialmente in quest'epoca. Noi siamo in un'epoca di ritorno al "misterioso".
D. E su che tipi di personalità il "misterioso" esercita il suo gran fascino? Almeno in analisi diciamo...
R. Risponderò al contrario dicendo che c'è l'altro rischio. Per esempio son durissimi come pazienti gli ingegneri perché l'ingegnere resiste a quella che sente come una manipolazione. Noti che io provengo da quella mentalità, provengo dagli studi matematici, però mi sono corretto. Debbo dire che anche Russell quando si è messo a fare il filosofo ha smesso di fare matematica ed è un grosso peccato perché era un grande matematico, ma se ci si investe di quello che è la realtà psicologica, che non è misteriosa di per sé, ma certo è un'altra cosa, è più fluida insomma, più sfuggente e richiede più capacità intuitive (richiede per esempio che uno reciti la parte dell'altro, che si investa della parte dell'altro) allora si perde un po' quella mentalità del matematico e l'individuo che conserva questa mentalità matematica ha sempre una forma di difesa in analisi, ed è un pessimo paziente.
D.    Dunque Cesare Musatti ha una personalità da matematico ma finisce, come ha detto prima, per fare un po' l'attore...
R.    Sì, io sarei stato capace di fare l'attore ma avrei dovuto imparare di più la tecnica; lo so perché ho avuto contatti con attori, che bisogna saper mantenere il distacco...

Anni fa poco dopo la guerra venne fuori un lavoro teatrale in cui c'era un dramma nel dramma; nel dramma cioè si recitava una rappresentazione sacra. Durante questa rappresentazione sacra a un certo momento quello che impersonava Gesù tirava fuori la rivoltella e ammazzava in scena: difatti l'opera si chiamava all'incirca Cristo ha ucciso, non mi ricordo più di chi è. Ma io lo vidi e mi interessò in modo particolare il fatto dell'attore il quale a un certo momento si impersona nel personaggio e agisce invece di recitare. Cosa che succede al paziente nell'analisi, perché in analisi abbiamo il pericolo dell'agire, invece di fare associazioni, invece di parlare. Al paziente può anche capitare di tirar fuori la rivoltella e di sparare all'analista, è appunto da questo che bisogna cercare di difendersi. Ma il paziente ha degli scatti di aggressività nei confronti dell'analista che deve estrinsecare verbalmente sul lettino e deve essere, questo, oggetto di analisi; dopodiché il paziente, che un momento prima ha detto: "Io La strozzerei, La butterei fuori dalla finestra, L'ammazzerei!" si alza e dice: "Riverisco professore, allora ci rivediamo...".
D. Che tipo di struttura della personalità hanno gli attori? È d'accordo che si tratta di strutture isteriche?
R. Non è che io abbia avuto in analisi molti attori. Io ho avuto Adriana Asti che è diventata mia amica, anzi non si riesce a raggiungerla e invitarla a colazione ormai perché è sempre fuori. Comunque non solo gli attori, ma anche gli artisti hanno facilmente degli elementi di carattere isterico, delle somatizzazioni. Oggi poi non si parla di isteria, non è più di moda, si parla di forme psicosomatiche, di somatizzazioni. Somatizzazioni ne hanno con una certa facilità gli artisti in genere, non solo gli attori. Per esempio io ho avuto in analisi forse il maggior violinista che abbiamo oggi, per dei disturbi che derivavano da un'ambizione sfrenata e un conflitto edipico molto forte. A diciannove anni questo ragazzo vince un gran premio; non aveva ancora preso la maturità classica, la prese quell'anno mentre veniva da me, e gli viene una specie di crampo al polso. Si fa vedere da tutte le parti e insomma, per un violinista avere un crampo al polso... Allora nel corso dell'analisi emerse rapidamente che si sentiva fortemente colpevole per il successo ottenuto, in funzione della rivalità col padre, un architetto di grido, bravissimo. Il ragazzo era sempre stato il figlio dell'architetto fino al momento in cui l'architetto era diventato il padre del violinista...


D. Ma la gente di teatro che vantaggio ricava secondo Lei, dal fare teatro, che vantaggio psicologico? Per esempio ricordo che una volta Romolo Valli mi confidò che aveva la sensazione, quando entrava in palcoscenico, di sfuggire quasi ai conflitti sociali e ai drammi storici della vita attorno a lui. Nelle strade in quel periodo a Roma si sentivano spesso gli slogan della contestazione e le sirene della polizia. Valli mi diceva che gli sembrava di entrare in una sfera in qualche modo tranquilla, incantata quando abbandonava la realtà delle strade e scorgeva nel teatro silenzioso la scena vuota de "Il malato immaginario" che lo attendeva. Ma quale è secondo Lei la relazione che lega l'attore al personaggio, il bisogno di farsi personaggio e di ricevere poi quella grande approvazione che è rappresentata dall'applauso?
R. Già, è sempre necessario il pubblico, a teatro vuoto nulla accade. Ho assistito tante volte alle prove, le prove sono niente, se non c'è il pubblico non si da questa necessità di comunicare. Ma certo, va bene insomma: Alice nel paese delle meraviglie. Si entra nel regno dell’immaginario, in un regno fantastico.

D. Venendo non puniti ma approvati in qualche modo...
R. Sì, ma qui c'è un grosso problema che è quello della follia, diciamo follia tanto per intenderci, perché la follia è il distacco dalla realtà, è la negazione della realtà, la sostituzione della realtà con una fantastica. L'attore questo non lo può fare completamente, deve sempre mantenere i legami con la realtà e forse la sua è proprio la soluzione di compromesso di cui Le parlava Romolo Valli. Perché l'attore, anche mentre recita, si tiene d'occhio. Capirà quando Adriana Asti fa la centocinquantesima recita di Come tu mi vuoi, impara la parte ogni sera, cinque minuti prima di entrare in scena si ripassa la parte, anche dopo centocinquanta volte che lo fa. È un po' un rituale. Cioè è diventato come la pillola per addormentarsi, che se non la si prende non si dorme e viceversa. Ma è anche il fatto che lei ha bisogno di uscire dalla situazione del camerino, dove fa la prima donna, parla con i fotografi, con quelli che la vanno a trovare ecc., da quella situazione lei deve buttarsi fuori, entrare in scena.

D. Quindi il teatro è una zona intermedia, un metaxì, partecipa dell’immaginario perché si può fingere di essere qualunque cosa, ma partecipa della realtà perché ogni spettacolo è un fatto concreto di impianto, di realizzazione; quindi è una camera stagna tra la realtà e l'immaginario?
R. A un certo momento il teatro diventa mestiere e quando diventa mestiere l'attore sa essere, nel momento in cui sta recitando, se Stesso e quello che impersona. C'è questo sdoppiamento (ne parlavo giusto con la Asti) perché l'essere completamente il personaggio non va bene. Perché uno deve essere il personaggio ma deve continuare a conservare la propria personalità, altrimenti si spara in palcoscenico effettivamente.
D. Questo mi ricorda un osservazione di Alessandro Fersen, che in certe pratiche degli sciamani, gli sciamani mantengono sia una situazione di trance sia una presenza e un controllo. Per esempio quando gli sciamani in trance ruotano attorno a un falò durante la cerimonia mentre tutti battono i tamburi, agitano delle grosse lance o dei bastoni. Ebbene, anche se gli sciamani


invasati sono in un altro mondo, non feriscono mai nessuno del pubblico, come se, pur essendo altrove, si rendessero sempre conto di chi è realmente lì attorno a loro. C'è forse bisogno di questa doppia realtà contemporanea?
R. Sì, del resto questa doppia realtà la troviamo anche nello psicotico delirante perché non è mica detto che il matto faccia il matto completamente: il matto un po' fa il matto e un po' recita a fare il matto. Questo fa sì che alcuni psichiatri considerino la malattia mentale come una recita, perché è e non è una recita.

D. Come nell'Enrico IV di Pirandello.
R. Sì, la verità è che, se è una cosa, è anche l'altra. Naturalmente l'ammalato mentale recita, ma non può fare a meno di recitare: è costretto.
D. Sempre a proposito di Pirandello, facendo delle ricerche sul rapporto che c'è tra la produzione drammatica di Pirandello e il problema della follia della moglie, ho sentito dire da più parti che l'amore che legava Pirandello a Marta Abba era squisitamente, assolutamente platonico. Anche Giudice nella sua grande biografia ricorda che Pirandello era un uomo estremamente pudico, sensibile, estremamente vergognoso e che rifuggiva da qualsiasi scherzo volgare di tipo sessuale. Lei si è mai posto questo problema, che relazione c'è tra il fatto che Pirandello si tenesse vicino per anni una donna folle come la Portulano non avendo mai delle amanti nel senso pieno del termine e la sua produzione artistica?
R. È difficile rispondere intanto perché era siciliano, Bisogna tener conto, io credo, del suo ambiente d'origine. Pirandello era profondamente siciliano come si vede nelle novelle, nelle cose in cui ha descritto questo mondo, e poi sa, l'uomo Pirandello non l'ho avuto in analisi...

D. Ma come possiamo spiegare che nelle sue opere teatrali la sua morale, la sua etica sia sempre contro le convenzioni, la falsa coscienza, il Super-Io patriarcale siciliano, e che in fondo nel suo lavoro non -facesse altro che abbattere queste antiche convenzioni?
R. E già, ma forse gli bastava questo! Spesse volte gli individui nella loro attività artistica sfogano determinati elementi che poi nella realtà viceversa non appaiono. Kafka. Anche Kafka; è sorprendente fare il confronto fra quella che è la vita di Kafka e la produzione di Kafka; lui aveva un complesso edipico formidabile con suo padre.

D. Lei ha parlato di Pirandello rispetto a Freud, è stato anche detto che nelle ultime opere di Pirandello c'è un inconsapevole junghismo per il suo avvicinamento al mito...
R. Infatti non ho detto che Pirandello fosse freudiano o junghiano, quello che è certo è che Pirandello ha liquidato il concetto angusto di un'anima sostanziale.

D. Quando Pirandello sottolinea la conflittualità di diversi individui nello stesso individuo, è solo in riferimento ad un conflitto tra diverse istanze psichiche e non è anche, come sosterrebbe J. L. Moreno, per un problema di competenza fra i diversi ruoli


sociali, ognuno dei quali lo lega ad una "persona" diversa?
R. In Pirandello ci sono entrambe le cose, del resto a Pirandello non importava niente della psicologia, sono io che volevo tirargli fuori qualcosa di psicologico...

Mi ricordo quando ero ancora giovanotto che c'era un signore che si occupava di teatro il quale era spiritoso e parlava imitando le ballerine che sono in punto di entrare in scena. Allora, le ballerine sono dietro le quinte tutte in fila, vestite, fanno gli ultimi esercizi, pronte per il palcoscenico e un attimo prima (batte allegro i piedi per terra imitandole per gioco - N.d.r.) si fanno di corsa il segno della croce. E ho visto che lo fanno anche i giocatori di football.
Quando sono venuto a Milano stavo vicino a un collegio di preti, c'era una piccola cappella e io vedevo i miei studenti che entravano in cappella, poi dopo io domandavo: "Ma che cazzo ci andate a fare?" e stavo vicino al liceo Parini, "ma insomma dico, che razza di superstizione, come può la religione diventare una faccenda di superstizione?". Quello passava a dire la preghierina per non essere interrogato o per essere interrogato e perché l'interrogazione andasse bene!
Attualmente ho una paziente allevata dalle monache, che parla di me alle monache e allora ho tutte loro che pregano per me. Hanno insegnato a questa signora; lei è un'impiegatina che ha fatto le commerciali, che però come avviene oggi ha questa capacità delle classi subalterne di elevarsi mentalmente, di raggiungere un certo livello culturale. E allora va al cinema, ai concerti, va a teatro, e il marito, pur essendo un tecnico dei telefoni, si diverte andando agli spettacoli, facendo viaggi. Ed è quindi una donna che ha una certa sua cultura e un giorno viene e mi porta una preghiera di Sant'Agnese che le hanno dato le suore:
Exultate mecum et gratulamini mihi
Quia inveni amatorem.
Et nullum, praeter eum,admittam:
Quem cum amavero casta sum,
Cum tetigero munda sum,
Cum accepero virgo

Sarà un  transfert   sublimato,  però,   accidenti   queste   monache sublimano ma hanno una carica erotica!   E  adesso, pensi un  po', pregano tutte per me.
D. Come suoi dirsi:   date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Lo fanno ancora nell'idea che Lei ne abbia bisogno oppure come sovrappiù?
R.    No, no... lo fanno per redimermi.

(a cura di Ottavio Rosati)

 

SUMMARY


Interview About the Analyst and the Actor
Cesare Musatti, doyen of the Italian psychoanalysis and trustee of the translation of Freud's Collected Works, recalls his experience of psychoanalytical psychodrama and portrays the psychoanalyst as an actor. In the interview Musatti deals with other subjects such as the scientific and artistic status of analytical work and the intuitive understanding of the psychichal mechanism expressed in Luigi Pirandello's theatre and ovels.

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