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DI LUIGI CE N' E' UNO SOLO di Pier Luigi Pirandello

Cara signora Moreno,

ho pensato spesso al nostro psicodramma al teatro Carignano come a un sogno. È tanto tempo che non ricordo più i sogni ma, a un anno di distanza, ho ancora un ricordo nitido di quella serata e di ciò che accadde sul palcoscenico.Nello psicodramma Lei mi portò ad Agrigento e mi invitò a parlare a mio nonno esprimendogli quello che non avevo saputo dirgli da bambino. Io lo feci volentieri e avrei voluto andare avanti. Però Lei mi invitò a invertire i ruoli con il nonno. A quel punto io mi bloccai. Incrociai le braccia e dissi di no, che non potevo farlo. Questa mia reazione me la sono spiegata risalendo alle vicende della mia famiglia legate all'assegnazione dei nomi di battesimo. Gliele racconto perché come psicologa le troverà interessanti.
Mio zio Stefano, quando nacque il suo primo figlio, il più grande della terza generazione della famiglia, ebbe il desiderio di imporgli il nome di Luigi. Si trattava di un desiderio più che legittimo perché in Italia nelle famiglie meridionali è abituale trasmettere il nome del nonno al nipote. È un modo di farlo sopravvivere.
Aveva fatto così lo stesso Luigi dando il nome di suo padre al suo primogenito, mio zio Stefano Pirandello (pure lui scrittore, noto col nome d'arte di Stefano Landi, che nelle sue opere ha sempre elaborato il rapporto padre-figlio). Del resto anche con mio padre Fausto Pirandello, il pittore, era avvenuto qualcosa del genere. Alla sua nascita mia nonna (Antonietta Portulano) fece al marito questo discorso: "Senti Luigi, quando è nato il primogenito hai voluto chiamarlo Stefano come tuo padre. Perciò adesso vorrei dare al nostro secondo bambino il nome di mio padre Calogero!". Ma nonno Luigi rispose: "Un momento Antonietta! Il nome di Calogero sul continente non è conosciuto: è troppo siciliano. Potrebbe andar bene come secondo nome ma per primo diamogli un altro nome, per esempio Fausto". Il fatto è che mio nonno era un ammiratore di Goethe, di cui aveva tradotto le Elegie Renane e il nome Fausto rappresentava anche e soprattutto un omaggio all'autore del Faust. Così mio padre fu chiamato Fausto Calogero.
La cosa strana però è che questa tradizione del nome del padre mio nonno non volle che i suoi figli la prolungassero a loro volta. Così, quando zio Stefano gli chiese l'autorizzazione a chiamare suo figlio Luigi, il nonno mandò subito un telegramma: "No. Lascia stare. Di Luigi ce ne è uno solo". E mio cugino fu chiamato Andrea.
Questo episodio lo sentivo sempre ripetere da mio padre ogni volta che qualcuno gli chiedeva perché non mi avesse chiamato semplicemente Luigi, anziché Pier Luigi. Papa ripeteva da capo tutta la storia del telegramma. Può immaginarsi quante volte l'ho sentita raccontare! Alla fine quel divieto deve essere penetrato nel mio inconscio e profondamente.
Ecco perché, al momento in cui lei durante lo psicodramma al teatro Carignano mi disse "Ora si identifichi con suo nonno Luigi e inverta i ruoli", io ebbi una reazione negativa tanto forte. Mi sembrò un atto sacrilego anche se, lì per lì, rimossi il motivo che me lo impediva: un espresso divieto del nonno (di Luigi ce n'è uno solo!).
Nel mio caso mettere Pier davanti a Luigi fu un escamotage. A pensarci bene, mio padre mi diede un doppio nome, proprio come avevano fatto a lui. 'Pier' serviva ad aggirare il divieto del nonno così come 'Fausto' era servito a fare accettare 'Calogero'. È evidente che in entrambi i casi si trattava di aggiustare due volontà contrastanti. Mio padre volle rendere omaggio alla tradizione del padre ma pure gabbarlo aggirando il suo divieto.
Credo che mio padre in un certo senso temesse la figura paterna, pur amandola. C'è una pagina dei suoi scritti che descrive le tensioni, il pudore che li legava. Gliela trascrivo:
«E il pomeriggio che fai?» mi chiedeva mio padre arrivando spedito in quella sua acconciatura cittadina, con quella sua cravatta a farfalletta e il cappello leggero dalla falda birichina così anacronistico in quel porcume di casalaccio ottuso e intasato di verde che sapeva di tonaca e d'incenso, di un rustico appena accudito; a me dissipato, inselvatichito, slacciato e sbracatissimo: «Che fai?» perché né quadri avevo da mostrargli, o che di troppe cure mi mostravo riguardo alla consorte ed al figlio ragazzina, né che altri frequentavo e tenevo in dimestichezza. E lo chiedeva con quell'acume d'occhi incuriosito e canzonatorio che sapeva penetrarmi.
E lo condussi un giorno, allora, dove ero solito rammemorare un mio essere primitivo o piuttosto ricorrere una mia stagione perduta, che c'era da traversare il castagneto a scivolo, sotto la folta volta di verde accidioso (troppo giallo in quel verde volgare, un verde bilioso) e che spurgava sentore di funghi e di marcito; e poi giù a rompicollo per il nocchieto sterposo di un verde austero e profondo, finché s'andava allo sconquasso tra il canneto e le fosse del ruscello.
Qua gli detti la mano con una nuova premura filiale perché capivo d'averlo messo a repentaglio - aveva il fiato grosso - e quasi mi pentivo di non averne avuto abbastanza riguardo.
Ma si era giunti, e sedemmo sui sassi tra lo sciacquio delle acque correnti e lingueggianti tra i ciottoli grandi, levigati e il frusciare di quella miriade di canne impannocchiate di foglie ricadenti e cuspidate come ostentori. Gli mostrai in silenzio le famiglie dei ghiri in corsa sui rami praticabili di quei nocchi contorti e il loro sbertucciare e rincorrersi e rodere e sgranocchiare furtivo,e poi il volo dei merli tra canna e canna, che al primo richiamo si faceva domestico, e l'abbeverarsi della faina appuntita, scattante, e l'armeggiare dei rospi scosciati sulle foglie sommerse, a sgravarsi del loro catarroso richiamo, quasi un rimbrotto sgangherato, protervo.
Mio padre guardava e mi guardava per rimettere il nesso tra me e quelle cose. Ma poi l'incanto di quell'ineffabile stato dovette penetrarlo. Era una condizione da limbo, un po’ spaurita ma non aliena di perdersi in una svasatura da cui il ritorno fosse forse astruso o problematico. Facile invece apprendersi al tanto verde tenero del canneto proclive, arrendevole per una antica metamorfosi. Ma già l'essere in due, guardandoci, ci riteneva al limite di una nostra ragione reciproca che ci faceva consapevoli. Ha detto piano riscuotendosi: «La stupida natura» e annuiva. «Quanto è stupida!» beandocisi.
Ce ne tornammo per mano aiutandoci, più tardi. Avrà pensato eh 'ero un ozioso di buon sentimento e di pochi desideri. E invece ne avevo sin troppi.

Non occorre che io faccia notare a Lei il significato profondo (la madre) di quell'insulto alla natura fatto dal padre davanti al figlio.
Fatto sta che mio padre aveva una forte personalità e sentì il bisogno di allontanarsi da casa sua. Andò a vivere a Parigi dove conobbe Picasso, Bracque, Matisse e tutta la colonia italiana, soprattutto De Chirico, Severini, Campigli. Io nacqui a Parigi nel 1928. Ma mia madre sentiva nostaglia per l'Italia, così nel 1931 tornammo a Roma. Che papa temesse di essere soverchiato da mio nonno l'ho pensato notando anche che nei suoi scritti non c'è una sola riga sugli ultimi giorni di Luigi Pirandello, come sarebbe stato logico, ma solo una pagina molto intensa sulla morte di nonna Antonietta che avvenne nel 1959 (ventiquattro anni dopo quella del marito). Gliene riporto qualche frase:

Dio mio, mamma ci abbandona.
Dice che starà con noi, dopo morta e come non poté essere in vita, madre. Queste sue parole dette pianamente mi scavano dentro un empito di commozione, che mi soffoca...
La nostra vita per lei fu quasi nulla, una notizia appena, e appena intesa, e ohimé, anche la sua per noi, di dove stesse con la mente e col cuore, in quel suo mondo frastornato dei più strani garbugli, fuori logica della successione di tempi e di eventi, dove tutto era affastellato e presente....
Poi si confonde e si stanca. Ma opera febbrilmente ripetendo il controllo dei gesti umili di tutti i giorni quasi temesse di averli intermessi; se è al suo posto il fazzoletto e la seggiola, se la sveglia cammina, e ne saggia la carica, ne avvia il moto con gesto che sembra impreciso, infantile, ed è stanco....
Ci conta con la mano, oggi, tre siamo, e quattro con un primo aborto, ma che è vivo nel conto, e piccino, Caterinetta, viva e qui vicino. "E con me, cinque". Ha intorno alla fede all'anulare, legata una fettuccia nera, da lutto. Forse sa, non sa, forse, di nostro padre, ma quella fettuccia nera a me pare che parli chiaro. Ci riconta con la mano, "E con me, cinque" e sorride...
Ti ho lasciato socchiudendo la porta, forse troppo o troppo poco da come avresti voluto. Fu quel tuo, per me, ultimo gesto impaziente, oppure era un saluto?

Di nonna Antonietta ricordo che andavo spesso a trovarla con mamma a Villa Giuseppina, una clinica psichiatrica sulla Nomentana dove a un certo punto il nonno si decise a ricoverarla. Lo fece intorno al 1921 dopo aver atteso il ritorno dei figli dalla guerra per consultarsi con loro. Dopo le biografie di Pirandello le ragioni di questa decisione non sono più un segreto di famiglia: Antonietta Portulano soffriva di deliri di persecuzione: arrivò a spiare il marito nel sonno, ad accusarlo di progetti incestuosi. Lo aggredì con un paio di forbici e la vita in famiglia divenne impossibile. I medici non lasciarono nessuna speranza di guarigione. Così si decisero al ricovero.
Purtroppo a quei tempi in Italia non si usava ancora curare i disturbi mentali con la psicoanalisi. In un articolo sui fantasmi di casa Pirandello, Ottavio Rosati dice che Sei personaggi in cerca d'autore non sono solo un'opera d'arte ma una specie di psicodramma scritto, con cui mio nonno cercò anche di curarsi, di liberarsi dei suoi problemi familiari. Può darsi che sia così ma allora è ancora più triste pensare che nessun medico aiutò mia nonna, che non scriveva, a fare il suo psicodramma. La terapia di Antonietta Portulano era fatta solo di medicine, di calmanti, e andò avanti per trentotto anni, per tutto il resto della vita insomma.

Ricordo che durante le nostre visite in clinica la nonna ci chiedeva sempre notizie del nonno. Aveva molto interesse per lui, ma nessuno per l'opera di Luigi Pirandello. Avrebbe voluto semplicemente vedere suo marito e noi le dicevamo sempre la pietosa bugia che lui era in viaggio, in America del Sud. Seguitammo a dirle così anche dopo la morte del nonno nel '36. Nonna Antonietta gli sopravvisse di molto: morì nel 1959.
Come Le dissi al Carignano, di nonno ho un ricordo pieno di amore ma lontano e distante. Della nonna invece un ricordo più familiare: veniva a casa nostra per tutte le festività più importanti come Pasqua e Natale. Aveva piacere a stare con noi nipotini. Dei quadri di suo figlio non si interessava, così come era indifferente ai libri del marito. Del resto il livello culturale medio della donna siciliana del secolo scorso non era alto. Credo che nonna non avesse nemmeno fatto studi dopo le scuole elementari. Movimenti artistici europei come il cubismo, la pittura metafisica, che stavano a cuore a mio padre le erano assolutamente estranei. Durante le visite a casa nostra me la ricordo sempre un po’ assente, però a noi altri bambini si ricordava sempre di portare regalini e dolci; prima di arrivare a casa dalla clinica chiedeva a mia madre di far fermare il taxi davanti alla pasticceria e scendeva a comprarci la cassata siciliana.
Questi sono i ricordi che lo psicodramma di Torino ha lentamente riportato a galla e che altri psicodrammi potrebbero forse dilatare.
Ricordo nonno Luigi con zio Stefano al villino di Via Bosio e poi in campagna vicino ad Anticoli Corrado, il paese del Lazio celebre per le sue belle donne dove i pittori e gli scultori andavano a scegliersi le modelle. Deve sapere che mia madre, Pompilia, era una bellissima donna di Anticoli e la sua storia d'amore con mio padre in qualche modo avrà ispirato la trama di Diana e la Tuda. Nonno che capiva tante cose, si immagini se non capiva una storia d'amore come quella del figlio per la sua modella.
Lì in campagna a San Filippo a tre chilometri da Anticoli la presenza dei miei genitori e una certa educazione dell'epoca mantenevano un diaframma tra nonno Luigi e noi bambini. Me lo vedo nella sua stanza seduto tutto il giorno davanti alla sua macchina da scrivere. Solo la sera smetteva di lavorare e si incontrava coi pittori di Anticoli che venivano a trovarlo.
Come vede sono solo pochi momenti.
Mio padre dovette percepire il rischio di essere inglobato da una figura paterna così importante. Perciò cercò sempre di tenersi il più lontano possibile.
Dedicandosi alla pittura, Fausto seguiva un po' mio nonno anche se fu più cauto dello zio Stefano che scelse la letteratura. Infatti deve sapere che anche il nonno dipingeva. Lo può vedere da questo frammento che compare in un volumetto di scritti di Fausto Pirandello, Piccole impertinenze curato da mia cugina Maria Luisa Anguirre D'Amico e appena pubblicato da Sellerio:
Se mio padre dipingeva, dipingeva anche mio fratello e questa petulanza indispettiva me solo cui per l'età tenera si vietava l'esercizio di quelle arti belle. Se contrariato e avvilito mi rivolgevo a mia madre, la trovavo intenta a ricamare fiori e arabeschi con variate matassine di seta d'incredibili colori. Estri anche questi ma castigati da certe false righe di disegni obbligati e accuratamente trasferiti sul panno nero col gesso o largamente imbastiti a filo bianco.
Erano pantofole ma avevano l'aria di un funerale.

Ma Luigi Pirandello, tanto era rivoluzionario in letteratura, tanto era semplice e tradizionale in pittura: la sua era una semplice pittura novecentesca non certo d'avanguardia. Lo può vedere dalla fotografia del ritratto che mi fece quando avevo otto anni. Era estate e ricordo che posai a lungo senza fare capricci.
Quella del nonno è una pittura rilevante solo per il fatto di essere opera di un grande scrittore. Così, disobbedendo al divieto dell'infanzia e dedicandosi con successo all'arte figurativa, mio padre riuscì a conquistare il suo spazio invalicabile e una dimensione in cui divenne enormemente superiore a suo padre. Ma a noi altri bambini, papa e mamma dissero sempre di stare alla larga da una professione artistica. Come vede, i famosi divieti tra padri e figli tornano.
Eppure io sono contento del ritratto che mi fece nonno Luigi ad Anticoli Corrado e fingo che la mia professione, l'avvocatura, non sia anch'essa un'arte.
Non pensa anche Lei, che l'avvocato e lo psicodrammatista abbiano in comune il destino di mettere la loro arte al servizio di qualcuno, purché questo qualcuno si faccia davvero difendere?
La ringrazio ancora e La saluto molto vivamente,
cara signora Moreno, cara "collega",

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